SOUTHWEST USA 2013

     .
Ho rimandato questo viaggio per anni, senza una motivazione plausibile, probabilmente solo in virtù di sterili preconcetti, che mi hanno impedito di concretizzare fattivamente i progetti studiati a tavolino, sui quali avevo progressivamente fantasticato.  Al viaggio però non si sfugge, il viaggio ci seduce, entrando a far parte di noi stessi anche semplicemente per brevi periodi, salvo esser talvolta momentaneamente rimandato, ma mai definitivamente messo da parte, fino al giorno in cui tornerà irrimediabilmente a stregarci con il suo irresistibile richiamo.

 

11/08/2013                  ROMA – LOS ANGELES

12/08/2013                  LOS ANGELES (UNIVERSAL STUDIOS)

13/08/2013                  LOS ANGELES – SEQUOIA NATIONAL PARK

14/08/2013                  SEQUOIA NP – YOSEMITE NATIONAL PARK

15/08/2013                  YOSEMITE NP – BODIE – LONE PINE

16/08/2013                  LONE PINE – DEATH VALLEY – LAS VEGAS

17/08/2013                  LAS VEGAS

18/08/2013                  LAS VEGAS – ZION NATIONAL PARK

19/08/2013                  ZION NP – BRYCE CANYON NATIONAL PARK

20/08/2013                  BRYCE CANYON NP– CAPITOL REEF NP – GOBLIN VALLEY SP – MOAB

21/08/2013                  MOAB

22/08/2013                  MOAB – MESA VERDE NATIONAL PARK – MONUMENT VALLEY

23/08/2013                  MONUMENT VALLEY – PAGE

24/05/2013                  PAGE – GRAND CANYON NATIONAL PARK

25/08/2013                  GRAND CANYON NP -  LAS VEGAS

26/08/2013                  LAS VEGAS – US VIRGIN ISLANDS

27-28-29-30-31/08     US VIRGIN ISLANDS

01/09/2013                 US VIRGIN ISLANDS – MIAMI – ROMA

  

L’11 Agosto 2013, alle 13:35 atterriamo al Los Angeles International Airport con una quindicina di minuti di ritardo, espletando però con sorprendente velocità le formalità doganali e riscontrando una temperatura sensibilmente inferiore rispetto a quanto preventivato. Troviamo la fermata degli shuttles  proprio di fronte all’uscita e, dopo una decina di minuti d’attesa, raggiungiamo in breve Arbor Vitae Street, dove sono ubicate le varie compagnie di autonoleggio. Abbiamo riservato un’autovettura tramite Rentalcars, un broker abbastanza popolare e collaudato, che ad un prezzo decisamente conveniente, comprensivo di tutte le assicurazioni più importanti, ci ha assegnato come compagnia Dollar, la cui filiale risulta al nostro arrivo letteralmente stracolma di gente in attesa, con conseguente interminabile fila di oltre un’ora, quasi a simboleggiare paradossalmente il meritato premio dopo un viaggio intercontinentale. In coda mi colpisce particolarmente il viso serioso di un bambino di origine indiana, con dei giganteschi occhialoni in osso, che gli rimpiccioliscono oltremisura il viso, conferendogli un aspetto irreale, oserei direi addirittura quasi caricaturale. Finalmente, quando arriva il mio turno, mi ritrovo faccia a faccia con Emma, una solerte impiegata che, come da copione prestabilito, inizia a sciorinarmi la solita tiritera di assicurative facoltative:

assicurazione contro un improvviso attacco alieno nella Death Valley…? “No thanks”.

Assicurazione contro aggressioni da parte dei chubacapras… ?“ No, thanks”.

Assicurazione contro eventuali proiettili vaganti in una nuova sfida all’O.K. Corral… ? “No, thanks”.

Assicurazione contro probabile indigestione a seguito sicura abbuffata nei buffet di Las Vegas…? “No, thanks”.

Assicurazione contro…”no, thanks”.

Ass… “no thanks” !

OK, le proposte sono finalmente terminate, quindi, con fare leggermente contrariato, Emma stampa rassegnata il contratto, dopodiché mi indica l’attiguo garage, al fine scegliere la vettura che mi più aggrada. Troviamo varie automobili disponibili, ma assistenza zero, essendo presenti solo un paio di addetti per oltre una decina di clienti, per la serie “prenditi velocemente una macchina, non rompere e sgomma”. Dopo aver visionato qualche mezzo, alcuni dei quali, in verità molto sporchi e dall’apparenza alquanto malconcia, alla fine, senza pensarci più di tanto, ho scelto una nuovissima Ford Egde, che forse rientrava anche in una categoria inferiore, ma lo spazio era più che sufficiente sia nell’abitacolo che nel portabagagli, e, soprattutto, la macchina odorava ancora di nuovo e segnava appena 6.753 miglia. Successivamente, avendo preso dimestichezza con l’imperante tecnologia di bordo, avendo trovato a stento il freno a mano, che in questo caso era un freno a… “piede”, e dopo aver cercato invano il pulsante dell’alabarda spaziale e del doppio maglio perforante, che a quel punto ero sicuro di trovare, imposto il navigatore sul 1753 di Orchid Avenue, e mi dirigo quindi alla volta dell’Hollywood Orchid Suites, prenotato direttamente via internet, immergendomi nel moderato traffico domenicale di Los Angeles.

Direi che ci siamo… avendo visto sfrecciare nell’ordine svariati modelli di classiche automobili da telefilms, emblematici cartelli indicanti Santa Monica, Hollywood e Beverly Hills, file di palme.

Le palme?

Sì, sì, dai, è Los Angeles!

Facciamo il check-in in hotel, parcheggiamo l’auto nell’angusto parcheggio del medesimo hotel al costo di dieci dollari al giorno, dopodiché, entrando dal retro del centro commerciale Hollywood & Highland, che attraversiamo velocemente, ci catapultiamo da bravi turisti sulla Walk of Fame, la quale ci assale con la sua scia di visitatori frammisti ad improvvisati Spider Man dell’ultima ora, emuli in fasce di Michael Jackson, addomesticatori di pitoni, venditrici ambulanti di cibo messicano, gruppi rapper più o meno talentuosi, Elvis stempiati, nonché improponibili Supermen panzoni. Ah, per la cronaca c’è anche Marylin, però questa è bella davvero, occorre precisarlo. Passiamo in rassegna El Capitan Theatre, il Kodak Theatre, ed il Grauman’s Chinese Theatre, dove eufemisticamente ci “divertiamo” a cercare le impronte di mani e piedi di qualche celebrità, poi continuiamo a passeggiare senza meta lungo l’Hollywood Boulevard attraverso le molteplici stelle d’ottone incastonate nel marciapiede, trovando il tutto in verità poco attraente e decisamente pacchiano. Saliamo quindi ai piani superiori dell’Hollywood & Highland, dai quali possiamo ammirare la famosa scritta “Hollywood” collocata sulla prospicienti colline, mentre intanto si sono fatte quasi le diciannove, ovvero le quattro del mattino in Italia e sono di conseguenza quasi ventitre ore che siamo in piedi.

Proposta del sottoscritto: “mangiamo un boccone in zona e ce ne andiamo a nanna”?

Risposta figlia: “perché, invece, non andiamo a Beverly Hills”?

Risposta moglie: “sì, giusto, perché non andiamo a Beverly Hills”?

Paura…

Riprendiamo quindi l’automobile, indirizzandoci alla volta di Beverly Hills, dove effettuiamo un giro abbastanza veloce, avendo comunque nel frattempo iniziato ad imbrunire, e trovando di conseguenza i negozi praticamente ovunque chiusi. Poco male, ho fame, ed inizio ad avvertire inevitabili segni di stanchezza. Sono circa le ventuno quando affido le chiavi della Ford ad un parcheggiatore in prossimità del 246 di North Canon Drive, varcando subito dopo la soglia di Mastro’s Steakhouse dove, dopo le formalità di rito, veniamo accompagnati ad uno dei piani superiori e fatti accomodare in un ambiente elegante e terribilmente glaciale. Inizio ad addentare la mia porterhouse che sono quasi le ventidue, mentre Valentina non riesce a terminare il suo filetto addormentandosi sul tavolo e mia moglie inizia a sua volta a mostrare evidenti sintomi di cedimento. Bistecca comunque stratosferica, risulterà in assoluto la migliore dell’intero viaggio, malgrado il prezzo da vertigini, che potrebbe indurre seriamente a valutare l’accensione di un mutuo. Guido nuovamente in direzione Hollywood, dove spegneremo le luci del nostro appartamento quasi a mezzanotte, vale a dire le nove del mattino in Italia, e mi si perdonerà se invece ho perso il conto, causa stanchezza, delle ore che sono in piedi. Buonanotte Los Angeles !

 

12 Agosto 2013 – Universal Studios Hollywood

Sveglia tranquilla, stamattina ci sentiamo abbastanza riposati dopo l’interminabile giornata di ieri, ed essendo comunque andati a nanna in credito di parecchie ore di sonno arretrato, non risentiamo più di tanto del fuso. Dopo una buona colazione, ci dirigiamo a piedi verso la stazione Hollywood/Highland della metropolitana, cercando inutilmente l’erogazione dei biglietti cartacei nelle locali macchinette, salvo poi scoprire che le corse avvengono tramite quelle tap card riutilizzabili, che vedevamo di continuo ricaricare. Una sola fermata, per quanto apparentemente senza termine, ci separa da Universal City dove, tramite la Red Line, scendiamo una decina di minuti dopo. Sarò sincero, se fosse stato per me, oggi avrei iniziato direttamente l’on the road, ma pago pegno a nostra figlia quasi tredicenne, dedicandole questa giornata da trascorrere negli Universal Studios Hollywood, e con il senno di poi lo rifarei in ogni caso, considerato che ci siamo sicuramente divertiti. Dopo aver preso la navetta gratuita, la quale fa spola ripetutamente tra la fermata della metropolitana e l’ingresso del parco,  alle nove in punto ci troviamo alla biglietteria. Qui l’arduo dilemma: “fare o non fare il carissimo Front of Line Pass”? Oggi è lunedì e forse ci sarà poca affluenza, ma vedo già formarsi lunghe code dinnanzi alle biglietterie e questa disillusione m’induce a non pensarci ulteriormente. Non me ne pentirò, considerato che da quanto leggeremo successivamente nei vari monitor, i tempi di attesa per accedere a determinate attrattive rasenteranno talvolta anche le due ore. Trascorriamo una gradevole giornata tra i vari Jurassic Park, Transformers, Simpsons Ride, Waterworld e compagnia bella, mescolandoci alla nutrita folla, seppur saltando come d’incanto le oceaniche code grazie ai nostri pass, che benediciamo, e tornando in qualche modo a nostra volta bambini. Abbiamo lasciato lo “studio tour” per ultimo, in quanto smaniosi di farci dondolare bruscamente da qualche attrazione più animata, pertanto iniziamo il giro che sono quasi le diciassette. Grazioso il King Kong 360 3-D, simpatica la location del Bates Motel di Psyco, poi iniziamo ad essere un tantino stanchi, con la palpebre che avrebbero quantomeno bisogno di essere sorrette da un paio di stuzzicadenti, poiché rischiano seriamente di… “calare”. La sera, svegliati da un’inevitabile doccia di rito, freschi e profumati, passeggiamo con fare leggermente assopito lungo l’Hollywood Boulevard, fino a raggiungere Vine Street, che ridiscendiamo sino al numero 1535, accomodandoci ad un tavolo dell’Hungry Cat, un piccolo locale moderno, all’interno del quale spicca il bel bancone dell’affollato bar e dove sembra regnare una certa informalità, che di certo non guasta. Sprofondiamo letteralmente al cospetto di un gigantesco piatto guarnito da frutti di mare, che annaffiamo con due margarita, ed a cui facciamo seguire un paio di bicchieri di chardonnay della Napa Valley. Passeggiando alquanto allegrotti sulla via del ritorno, non possiamo fare a meno di notare quanto, poche centinaia di metri lontano dal patinato clamore turistico, possa apparire diversa questa zona di Hollywood, frequentata da svariati barboni, nonché da personaggi dall’aspetto poco rassicurante. Ci accomodiamo per la seconda notte nell’appartamento dell’Hollywood Orchid Suites.

Domani inizierà il nostro primo on the road sul suolo statunitense.

  

13 Agosto 2013 – Los Angeles/Sequoia National Park

 Oggi è il gran giorno, ovvero l’inizio del nostro primo on the road sul suolo statunitense. Facciamo colazione all’apertura, dopodiché carico velocemente i bagagli in auto e lasciamo rapidamente l’hotel, imboccando sulla destra dapprima Franklin Ave, che percorriamo brevemente, per poi svoltare a sinistra sulla North Highland Ave, dalla quale ci immettiamo in breve sulla veloce US-101 N. La guida scorre rapida, a differenza dell’altro senso di marcia, dove centinaia di automobili si riversano in direzione di Los Angeles, intasando letteralmente la carreggiata. Entriamo a Three Rivers poco dopo le dieci e trenta, e ne approfittiamo per acquistare qualche cibaria per il pranzo, ma soprattutto il nostro frigo di polistirolo, che ci accompagnerà fedelmente in questo viaggio. Poco dopo, varchiamo l’ingresso del Sequoia National Park, liberandoci seppur a malincuore di altri ottanta dollari necessari per entrare in possesso del nostro annual pass, che ci consentirà di accedere senza ulteriori spese in tutti i parchi nazionali di questo nostro primo on the road. La strada si inerpica progressivamente su vari tornanti, è una giornata splendida, caratterizzata da un cielo spettacolarmente terso, mentre iniziamo progressivamente ad avvistare i primi segnali riguardanti vari pericoli inerenti gli orsi. Poi, come d’incanto, ecco comparire le prime sequoie, che ci lasciano senza parole. Facciamo la prima doverosa sosta nel Giant Forest Museum, dopodiché, dopo aver consumato un panino, ci incamminiamo lungo il Big Trees Trail, con il viso rivolto in su e lo sguardo perennemente perso sulle cime di questi giganti. E’ davvero incredibile come la natura possa entusiasmarci come bambini al cospetto di cotanta bellezza, perché non c’è a mio avviso foto che possa effettivamente rendere l’idea di ciò che effettivamente siano questi immensi alberi. Proseguiamo verso Moro Rock, mastodontica formazione granitica, raggiungendone la cima dopo aver percorso circa quattrocento gradini, potendo però simultaneamente godere di una suggestiva visuale d’insieme del sottostante parco, nonché della catena della Sierra Nevada in lontananza. Il passo successivo ci conduce a Tunnel Log, dove scattiamo le foto di rito, immortalando la nostra autovettura che transita attraverso una gigantesca sequoia, poi passeggiamo all’interno di Crescent Meadow, con gli onnipresenti cartelli che avvertono i visitatori circa l’attenzione da prestare agli orsi, evidentemente presenti in gran numero all’interno del parco. Ripresa l’auto, percorriamo qualche chilometro per andare a conoscere la superstar del parco, ovvero il General Sherman Tree, i cui numeri che lo riguardano sono da capogiro: 1487 metri cubi di volume, 11 metri di diametro, 31 metri di circonferenza, 1385 tonnellate di peso, 83,82 metri di altezza. Ottanta che? Sì, ottanta-tre-metri e passa ! Altro che gigante, questo è un alieno !!! La luce del sole inizia a filtrare sempre meno attraverso le gigantesche sequoie, mentre la nostra strada da percorrere è ancora abbastanza lunga, così, torniamo a cimentarci lungo i vari tornanti, circondati dalla maestosità di questi immensi alberi, mentre di tanto in tanto avvistiamo qualche simpatica creatura che popola queste foresta. Quanto arriviamo al Grant Grove Village e prendiamo le chiavi della nostra stanza nel John Muir Lodge, sta orma imbrunendo. La nostra giornata iniziale del nostro primo on the road statunitense è stata più che positiva, così come reputo ottima anche a posteriori la scelta di dormire nel Grant Grove Village, malgrado i costi leggermente più cari, avendo attraversato il parco da sud a nord, senza dover ripercorrere la strada a ritroso per tornare a Three Rivers.

 

14 Agosto 2013 – Sequoia/Yosemite National Park

Ci svegliamo presto, consumando una buona colazione nel piccolo ristorante del Lodge adiacente la reception, che funge anche da negozio di souvenirs.

Raggiungiamo in breve in auto l’altra celebrità della zona, vale a dire il General Grant Tree, ovvero la più grossa sequoia della General Grant Grove, splendida sezione ubicata nel Kings Canyon, parco nazionale gemello confinante con il Sequoia. Percorriamo in completa solitudine il medesimo trail, ammirando in successione le Twin Sister, due sequoie parallele, ravvicinate e caratterizzate da una crescita monitorata del tutto simile, la Fallen Monarch, gigantesco albero caduto, contraddistinto da un enorme diametro facilmente percorribile al suo interno dai visitatori senza doversi minimamente piegare, la Gamblin Cabin, storica struttura in legno risalente al 1872, mentre siamo leggermente impensieriti da un ripetuto suono gutturale proveniente dal fitto della vegetazione circostante, che fa correre velocemente il pensiero alla plausibile presenza di qualche orso, malgrado il verso, ascoltandolo con più attenzione, ricordi maggiormente il grugnire di un cinghiale. E’ tutto così magnifico. Le spettacolari sequoie giganti, che si susseguono durante la passeggiata, e probabilmente anche il fatto certamente non trascurabile di poterle ammirare questa mattina senza anima viva nei dintorni, riescono a farci vivere il posto quasi fossimo i protagonisti di una favola ambientata in questo contesto fiabesco. Poi, arriviamo al cospetto dell’altro protagonista del Sequoia/Kings Canyon, alias il suddetto General Grant Tree, la cui altezza di circa 81,5 metri è di pochissimo inferiore a quella del General Sherman Tree ammirato ieri, mentre la circonferenza è addirittura superiore.

Dopo le foto di rito, raggiungiamo in breve il parcheggio e, ripresa l’auto, usciamo dal parco tramite la CA180 W, dalla quale imbocchiamo poco prima di giungere a Fresno la CA41 in direzione nord. Effettuiamo successivamente uno stop ad Oakhurst, per acquistare in un grosso supermercato locale l’occorrente per il pranzo odierno, dopodiché varchiamo l’ingresso sud dello Yosemite National Park, riscontrando sin da subito una nutrita affluenza di visitatori. Avendo trascorso tra le sequoie la prima parte di questa mattinata, nonché tutta la giornata di ieri, saltiamo intenzionalmente la visita di Mariposa Grove, inoltrandoci nel parco lungo la Wawona Road, che percorriamo per diverse miglia, fino a svoltare sulla destra successivamente lungo la Glacier Point Road. Ora, avete presente la tangenziale delle nostre principali città durante l’ora di punta? Bene, malgrado il magnifico contesto, improvvisamente restiamo letteralmente bloccati nel traffico originatosi lungo la medesima strada, e nonostante la massiccia presenza turistica, il perché non può che essere uno, ovvero un’ulteriore presenza, quella dell’ambita wildlife vicino ai margini della strada. Bear, questa è la infatti parolina magica, che rimbomba di auto in auto. Questo, è anche il termine che ha provocato questo mostruoso ingorgo, e l’orso bruno è effettivamente lì, a breve distanza, del tutto incurante di questi strani esseri umani che gli puntano occhi e teleobiettivi contro. Occorre dirlo, nei miei viaggi ho sovente avuto la fortuna di entrare in contatto con la wildlife, e nei loro habitat naturali ho visto un po’ di tutto, dai leoni ai coccodrilli marini, dagli squali agli orang utan, ma non avevo mai ammirato un orso, solo che ora, vedendolo in questo modo, collarizzato e con tutta questa gente intorno, ad essere sincero non suscita in me quell’entusiasmo che mi sarei aspettato.

Il parcheggio di Glacier Point è al limite della capienza, ma per fortuna troviamo posto senza particolari difficoltà, approcciando questo sito che offre spettacolari visioni d’insieme sull’Half Dome, la sottostante Yosemite Valley e le Nevada Falls, uniche cascate dalle quali osserviamo nitidamente sgorgare acqua, data la stagione secca. Non v’è dubbio, si tratta sicuramente di un luogo bello e suggestivo, assolutamente meritevole di essere visitato. Facciamo il nostro bel picnic, immersi nella pace dei sensi e con lo sguardo rivolto su cotanta bellezza paesaggistica, dopodiché riprendiamo l’auto, fermandoci in breve al piccolo parcheggio dal quale iniziamo a percorrere il trail che ci condurrà sulla cima del Sentinel Dome. Effettuiamo in scioltezza questo piacevole percorso di circa 3 chilometri e mezzo tra andata e ritorno, la cui difficoltà si presenta lievemente solo nel tratto finale, man mano che ci si avvicina alla vetta di questo suggestivo rilievo, dal quale godiamo di spettacolari vedute del parco. Ci dirigiamo quindi alla volta della Yosemite Valley, sostando a Tunnel View e successivamente alle Bridalveil Falls, che però troviamo completamente asciutte. Raggiungiamo quindi, quando è ormai completamente buio, lo Yosemite Lodge at The Falls, prenotato con mesi di anticipo. Parcheggio al gran completo, tanto che dobbiamo posteggiare l’auto a diverse centinaia di metri dalla nostra camera, che si presenta piuttosto buia e con uno sgradevole odore di vernice. Anche il personale alla reception non ha spiccato certo in simpatia, né tanto meno in efficienza, avendogli dovuto chiedere tre volte il letto aggiunto prenotato in anticipo da mesi. Hanno sempre il pienone nei mesi estivi, periodo in cui occorre prenotare con grandissimo anticipo, e questo a mio avviso può essere giustificato solo dalla posizione, che rappresenta il vero punto di forza di una struttura che nel complesso annovera parecchie lacune. Buona l’informale caffetteria per la prima colazione, appena sufficiente, invece, il ristorante dove abbiamo cenato. All'atto del check-in ci è stata fatta firmare una liberatoria per gli orsi, nella quale il lodge declinava qualsiasi responsabilità per eventuali aggressioni e danni alle macchine.

 

15 Agosto 2013 –  Yosemite National Park/Bodie/Lone Pine

Quest’oggi sveglia prestissimo, abbiamo molta strada da fare e numerose visite da effettuare. Alle 07:30 iniziamo già a percorrere in completa solitudine il trail per le Vernal Fall, il quale misura circa cinque chilometri scarsi tra andata e ritorno. La prima parte del sentiero scorre abbastanza in scioltezza, poi, quando iniziamo la salita lungo i gradoni del John Muir trail, alla lunga iniziamo ad avvertire un po’ di fatica, comunque compensata dagli stupendi panorami che si succedono ai nostri occhi, con gli innumerevoli scoiattoli che fanno da contorno alle belle cascate, che riscontriamo in verità abbastanza asciutte. Arriviamo con soddisfazione fino al punto in cui l’acqua compie il proprio balzo verso il vuoto, dove incontriamo solo pochi altri visitatori, ma lungo il ritorno ne incroceremo a decine nel senso opposto, e non oso pensare cosa possa diventare il posto verso l’ora di pranzo. Lasciamo la valle, imboccando la Tioga Road, che ci regalerà lungo le sue sessantaquattro miglia la visuale di fantastici panorami, e malgrado la tabella di marcia quotidiana c’imponga gioco forza di serrare i tempi senza effettuare deviazioni, riusciremo ugualmente a fermarci varie volte lungo il percorso, al fine di ammirare questi fantastici spettacoli offerti dalla natura, con un plauso in particolare al bellissimo Tenaya Lake. Pranziamo a Lee Vining, e verso le quattordici e trenta, dopo aver percorso complessivamente una trentina di miglia, arriviamo in scioltezza a Bodie. Trascorriamo un paio di ore passeggiando piacevolmente in questa Gost Town, oggi protetta come State Park, la cui storia è simile a quella di molte altre città fantasma che sorsero durante il periodo della corsa all’oro, in quanto nacque dal nulla nel 1859, dopo che fu casualmente trovata nei paraggi una pepita da un certo William Bodey. Nel 1879 arrivò ad annoverare circa diecimila abitanti, ed era la più grande città californiana dopo San Francisco, riuscendo a contare addirittura ben 65 saloon, oltre a svariati bordelli e numerose fumerie d’oppio. Facile anche immaginarsi come poteva essere la vita all’epoca, tra sparatorie quotidiane ed omicidi vari, tant’è che i minatori erano soliti al mattino dire: “Have a man for breakfast?”, domandandosi quindi se il giorno precedente fosse stato ucciso qualcuno. Ritengo la visita di Bodie interessante e meritevole di una deviazione, costituendo un autentico tuffo in quel passato stereotipato stile western, con la possibilità di passeggiare tra reali storici edifici, sbirciando attraverso le finestre chiuse degli stessi, dentro le quali si trovano arredi e cimeli autentici, come se le lancette dell’orologio fossero ferme all’epoca della corsa all’oro.

Riprendiamo la nostra marcia in direzione sud lungo la US395, che percorriamo per circa 150 miglia fino a giungere a Lone Pine, dove arriviamo che sono ormai quasi le diciannove. Siamo praticamente a ridosso della Death Valley, ed il caldo, malgrado l’ora, si fa indubbiamente sentire. Prendiamo possesso della nostra grande stanza nel Best Western Plus Frontier Motel, classico motel con i parcheggi ubicati di fronte la porta della camera. Ne approfittiamo per scaricare un po’ della stanchezza accumulata in giornata rilassandoci nella piccola adiacente piscina, potendo inoltre usufruire di un eccellente segnale wi-fi gratuito messo a disposizione degli ospiti. La sera ceniamo in paese al Mount Whitney Restaurant, caratteristico locale con le pareti tappezzate da foto di celebrità hollywodiane, John Wayne su tutti, considerato che negli immediati dintorni sono stati girati numerosi film western e di avventura. Ottima la birra alla spina, succulente le mastodontiche bistecche, veramente modico il conto. Eccellente, anche con il senno di poi, la scelta di trascorrere la notte a Lone Pine.

 

16 Agosto 2013 – Lone Pine/Death Valley/Las Vegas

 

Lasciamo Lone Pine molto presto, e dopo un’ora appena di guida ci ritroviamo già cuore della Valle della Morte, alle Mesquite Flat Sand Dunes. Sono le 8 del mattino, ma fa già caldissimo. Passeggiamo un po’ in prossimità delle dune, poi riprendiamo la marcia fino al prossimo stop, l’Harmony Borax Works, risalente al 1883, con il pittoresco il leggendario carro dei venti muli che, a quanto si narra, trasportavano il borace da qui fino alla ferrovia di Mojave, lontana circa 165 miglia.

La CA190 è un nastro d’argento che scorre nel mezzo del nulla, fatto brillare e bruciare dagli infuocati raggi del sole.

Imbocchiamo la Badwater Road, che percorriamo per un breve tratto fino alla deviazione sull’Artists Drive, piacevole strada a senso unico, la quale si snoda attraverso un paesaggio dall’aspetto quasi lunare e trova la sua apoteosi nell’Artists Palette, dove le rocce si trasformano come d’incanto cromaticamente, mostrandosi in determinati punti quasi fossero delle suggestive tavolozze di colore. Magnificent !!!

Next stop Zabriskie Point, con la temperatura che ormai segna i 46 gradi centigradi. Si tratta del posto che più in assoluto mi piaciuto nella Death Valley e, nonostante la nutrita presenza di turisti/ torpedoni, si resta totalmente attoniti di fronte al meraviglioso paesaggio, che questa parte di mondo offre ai fortunati visitatori.

Riprendiamo ancora la 190, spostandoci nuovamente nel forno della valle fino al Dante’s View, che stentiamo a raggiungere a causa di due turiste asiatiche, sulla cui relativa strada in salita si inerpicano con la loro autovettura ad una velocità da bradipo impigrito, tant’è che, malgrado avessi spento da tempo il climatizzatore, sul cruscotto appare minacciosa ed inquietante la spia che segnala un eccessivo surriscaldamento del liquido refrigerante. Anche qui, il colpo d’occhio è eccezionale, ed in più, l’aria è anche abbastanza mitigata dai 1524 metri di altitudine. Ne approfittiamo, godendoci a lungo il sottostante paesaggio, dando contestualmente modo all’acqua del radiatore di raffreddarsi. Lasciamo verso le 14 la Death Valley e sarà che probabilmente in sole sei ore l’abbiamo visitata marginalmente, o che non avendo assistito al sorgere del sole in determinati siti tipo Zabriskie Point, da molti descritto come uno spettacolo straordinario, ci siamo indubbiamente preclusi emozioni e sensazioni diverse, ma la Valle della Morte, malgrado mi sia piaciuta e la reputi indubbiamente meritevole di una visita, non mi ha particolarmente entusiasmato, riconoscendo di andare sensibilmente controcorrente rispetto all’opinione diffusa.

 

Mancano ancora una decina di minuti alle diciassette, quando varchiamo la soglia del Caesars Palace di  Las Vegas, dopo aver lasciato le chiavi dell’autovettura ad un simpatico parcheggiatore di origini italiane. Percorriamo non so quante centinaia di metri (giuro che non sto esagerando) con i bagagli al seguito all’interno del mastodontico hotel che si fonde in un tutt’uno con l’annesso casinò, stentando non poco a trovare l’ascensore giusto con il quale salire nella camera assegnataci, ma quello che più in assoluto mi stupisce è il continuo via vai di gente, che ricorda più l’interno di un affollato aeroporto durante i periodi di alta stagione, piuttosto che un hotel. Finalmente ci siamo, così dopo aver infine trovato la retta via, prendiamo possesso della nostra bella e spaziosa camera, dopodiché scendiamo a capofitto nel Garden of the Gods Pool Oasis, un insieme di belle piscine che troviamo letteralmente superaffollate. Siamo arrivati purtroppo a Las Vegas di venerdì, e, come in tutti i fine settimana, c’è sfortunatamente per noi un gran pienone. Caldo asfissiante, affollamento all’inverosimile, musica sparata ad un volume da concerto heavy metal, alcol che scorre a fiumi, superpalestrati, super tatuati, superpircingati, supersbronzi, supergrassoni, supercaciaroni, supercumuli di birre ammucchiate, insomma, si tratta di uno spettacolo non propriamente affascinante, non v’è dubbio, con un caldo oltretutto quasi equiparabile a quello della Death Valley. Riusciamo dopo qualche peripezia a trovare due lettini disponibili in mezzo a mille occupati, dopodiché ci lanciamo nella bolgia, ma l’unica che sembra veramente divertirsi è Valentina, che rimane a mollo incurante di tutto e tutti, cambiando ogni tanto piscina. Ormai ci siamo calati in quest’insolita realtà di questo insolito (almeno per noi) hotel, di quest’altrettanto insolita città, così, poco dopo le 20 ci mettiamo in coda per accedere al Bacchanal Buffet. Coda… Abbiamo detto coda? Fila mostruosa, questo è il termine corretto, un interminabile serpentone umano che seguiremo per oltre un’ora al fine di accedere ad un buffet che costa 50 dollari + tasse a persona, quindi non propriamente un’inerzia, se vogliamo dirla tutta, e la domanda spontanea, che questo punto ci sorge, estendibile non solo al Bacchanal, ma a tutto il Caesars Palace e di riflesso all’intera Las Vegas, credo sia quasi d’obbligo: “ma qui, quanti dollaroni circolano ogni giorno?

L’ingresso al Bacchanal Buffet ci proietta in un universo parallelo, costituito da decine di stazioni nelle quali si cucina a vista sostanzialmente di tutto, e noi, durante in questa giornata, abbiamo consumato solo la colazione a Lone Pine qualche centinaia di miglia fa, ed un… gelato! Prendiamo d’assalto prima lo stand con le ostriche, i granchi, ed i frutti di mare, magnificamente assortiti, in quantità tale da sfamare il reggimento del settimo cavalleggeri, nonché dalla notevole e per certi versi anche inaspettata qualità, per poi procedere alla volta delle altre stazioni, dove troviamo letteralmente di tutto, al punto tale che, scherzando con le mie donne, continuo smisuratamente ad abbuffarmi dicendo che determinate realtà mi riportano alla mente un mio amico d’infanzia, che non intendeva mai andarsene dalle feste di compleanno alle quali eravamo stati invitati, anche se noiosissime, perché doveva rifarsi con gli interessi dei soldi spesi per il regalo, ingozzandosi senza ritegno al buffet. Completamente satolli, concludiamo la serata con una passeggiata digestiva lungo lo strip, neppure in verità troppo dilungata, causa stanchezza dovuta ad una giornata comunque intensa.

 

 

17 Agosto 2013 – Las Vegas

 

Prima giornata del viaggio in cui ci svegliamo non calma, oggi nessun miglio da macinare, ma solo relax allo stato puro. Verso le nove e trenta, prendiamo comunque ugualmente l’auto, mentre il termostato riscontra la temperatura di ben 42 gradi. Ci dirigiamo in breve al Las Vegas Premium Outles South, che troviamo completamente vuoto, essendo comunque relativamente presto per gli standard di questa città. Colazione al Dunkin Donuts locale, con dei cappuccini di lava rovente e qualche ciambella assortita, poi, non riesco più a trattenere moglie e figlia, le quali si tuffano a capofitto in uno shopping sfrenato a prezzi in verità esageratamente convenienti. Tanto per fare un solo pratico esempio, mia figlia ha acquistato tre paia di scarpe Converse allo stesso prezzo di una in Italia… Passiamo tutta la mattinata nell’Outlet, poi, sotto un sole che squaglia l’asfalto, nel primo pomeriggio ci dirigiamo a piedi nel vicino Buffalo Wild Wings, dove non solo troviamo refrigerio, ma trascorriamo divertiti anche diverso tempo in questo affollato locale, ingozzandoci di squisite alette di pollo fritto e tracannando qualche boccale di ottima birra. Nel tardo pomeriggio facciamo un giro in auto lungo lo strip, dopodiché torniamo ad immergerci nella bolgia infernale del sabato nel Garden of the Gods Pool Oasis del Caesars Palace e per non farci mancare nulla, la sera torniamo anche a sprofondare in quell’universo culinario rappresentato dal Bacchanal Buffet. Mi rendo conto, seppur minimamente, di cosa possa offrire questa città a livello di divertimenti e svago, poi penso contestualmente che con un soggiorno prolungato, qui potrei facilmente metter su una decina di chili abbondanti. Pericolo comunque scampato, domani si torna all’on the road.

 

18 Agosto 2013 – Las Vegas/Zion National Park (The Narrows)

 

Usciamo di buon mattino da Las Vegas, imboccando rapidamente la I-15N, che ci conduce scorrevolmente nello Utah. Facciamo una breve sosta con rifornimento ad Hurricane, dopodiché, tramite la UT9 ci dirigiamo alla volta di Spingdale, ubicata alle porte dello Zion National Park, che raggiungiamo in breve. Ci fermiamo dapprima allo Zion Rock & Mountain Guides, dove noleggiamo delle scarpe anfibie e dei calzari, in quanto è nostra intenzione trascorrere l’intera giornata a “The Narrows”, mentre successivamente acquistiamo qualcosa per il pranzo. Sono da poco superate le undici quando varchiamo l’ingresso dello Zion National Park, mostrando ai rangers la nostra prenotazione odierna allo Zion Lodge, la quale ci consente di addentrarci nel parco, dove in questo periodo possono circolare solo le navette. Lo Zion, con le sue alte pareti rossastre, che si stagliano verso un cielo quest’oggi incredibilmente terso, è letteralmente fantastico. Dopo i giorni trascorsi visitando i parchi di Sequoia, Yosemite e la Death Valley, i paesaggi dello Zion richiamano immediatamente alla mente la classica immagine stereotipata dei parchi del sudovest. Parcheggiamo l’auto presso lo Zion Lodge, dove ci comunicano che non potremo effettuare il check-in prima di pomeriggio, pertanto lasciamo i bagagli in macchina, prendendo rapidamente la navetta fino alla fermata Temple of Sinawava, da dove iniziamo a percorrere il pianeggiante Riverside Walk, il quale si snoda lungo il Virgin River per poco meno di un paio di chilometri. Eccoci dunque arrivati alla fine del lastricato sentiero, dove vediamo la gente con i piedi a mollo nel fiume, che a nostra volta iniziamo a guadare spingendoci verso l’interno. The Narrows è un incanto. Qui l’acqua ha scavato negli anni una profonda gola altamente scenografica, per una lunghezza complessiva di circa ventisei chilometri e l’escursione possibile consiste nel camminare al suo interno, addentrandosi tra le alte pareti rocciose. Nella parte iniziale del percorso incontriamo parecchi altri visitatori, alcuni dei quali si avventurano con delle semplici ciabatte infradito, che non gli consentiranno di allontanarsi più di tanto. Infatti, anche in questo periodo in cui ha recentemente piovuto poco, in alcuni punti l’acqua arriva sovente fino alle ginocchia e talvolta anche oltre, di tanto in tanto occorre guadare dei tratti in cui si riscontra una veloce corrente e, soprattutto, spesso ci sono delle rocce che si presentano molto scivolose. Delle normali scarpe da trekking potrebbero essere a mio avviso sufficienti, ma queste Adidas Hydro-Pro, che abbiamo noleggiato assieme ai calzari, si riveleranno formidabili nel mantenerci i piedi quasi completamente asciutti, oltre a garantirci un’ottima stabilità. Superate le quasi asciutte Mystery Falls, man mano che ci spingiamo all’interno, diminuisce proporzionalmente la presenza di visitatori. Ci fermiamo presso una piccola spiaggetta ombreggiata contornata da roccioni levigati, in un punto in cui l’acqua assume delle tonalità più accese, e ne approfittiamo per improntare il nostro picnic in un silenzio assordante, riscontrando ora la quasi totale assenza di turisti.

E’ veramente tutto così meraviglioso, ancora una volta mi sento un privilegiato nel poter visitare queste autentiche meraviglie della natura con le persone che più amo.

Proseguiamo oltre, spingendoci fino al punto denominato Wall Street, dove le pareti verticali del canyon ci appaiono ora smisurate, mentre il sole ha iniziato progressivamente a scendere, creando dei fantasmagorici giochi di luce e degli scenari onirici.

Torniamo indietro, godendo appieno ancora della magia di questo posto e mentre ormai le pareti del canyon sono completamente in ombra, ci accorgiamo che, come d’incanto, si sono quasi fatte le diciannove.

Preso rapidamente possesso della nostra camera allo Zion Lodge, facciamo una rapida doccia e ci rechiamo a Springdale. Troviamo fortunatamente ancora aperto lo store del Zion Rock & Mountain Guides, così possiamo riconsegnare le scarpe prese a noleggio, dopodiché ci fermiamo presso uno dei tanti locali di Springdale per una cena che risulterà oltremodo pessima.

Lo spettacolo offerto dalle decine di cervi che pascolano sul prato dello Zion Lodge al nostro ritorno, è di quelli che difficilmente si possono dimenticare e giunge a coronamento di una giornata assolutamente meravigliosa.

 

19 Agosto 2013 –  Zion National Park/Bryce Canyon National Park

Questa mattina, sotto un cielo parzialmente coperto, subito dopo aver posato i bagagli in macchina c’incamminiamo lungo il trail delle Emerald Pool, che raggiungiamo agevolmente dal vicino Zion Lodge. In breve, dopo aver attraversato il ponte sul Virgin River, raggiungiamo tramite un sentiero lastricato abbastanza pianeggiante le piccole cascate di Lower Emerald Pool, ridotte in verità a poco più di un rigagnolo. Il colpo d’occhio è però magnifico, con le immense e rossastre formazioni rocciose che incorniciano d’incanto il quadro composto dal sentiero che stiamo percorrendo e la vegetazione circostante. Dalla Lower, tramite prolungamento del medesimo sentiero, il quale inizia a svilupparsi però abbastanza in salita, raggiungiamo agevolmente la Middle Emerald Pool, in verità costituita semplicemente da un insieme di modesti ruscelli che, cadendo nel vuoto, formano le cascatelle della Lower che abbiamo visto sotto. Troviamo il sentiero per l’Uppur Emerald Pool chiuso nel punto in cui abitualmente inizia la relativa diramazione, così siamo costretti ad effettuare una deviazione, comunque ben segnalata, e dopo una mezz’ora abbondante di sterrato quasi totalmente in salita, sotto un sole che nel frattempo è tornato purtroppo per noi ad infuocare l’aria, ma con la vista allietata dallo splendore dei paesaggi circostanti, raggiungiamo questa grande pozza dai riflessi verdognoli, che troviamo purtroppo quasi asciutta. Ne approfittiamo per godere di un po’ frescura, visto che al momento l’intera zona è completamente in ombra grazie alla confinante nonché altissima parete rocciosa, e riflettiamo contestualmente sul fatto che, forse, considerato il modesto spettacolo offerto, il gioco di arrivare sin qui sopra non valeva la candela, senza contare che di color smeraldo, non c’è proprio nulla negli immediati dintorni. Non torniamo indietro sul medesimo percorso, ma imbocchiamo il trail per The Grotto, il quale ci offre bellissimi scorci delle rossicce pareti montuose dello Zion e del sottostante Virgin River, mentre inizia nuovamente a riannuvolarsi. A The Grotto vediamo numerosi visitatori incamminarsi al fine d’intraprendere il trail per l’Angel’s Landing e questo costituirà il primo nostro vero rammarico di questo viaggio, in quanto, considerata la surreale bellezza dello Zion, mi pento seriamente di non avervi soggiornato un paio di notti, come da progetto iniziale, successivamente rivisto. Prendiamo invece lo shuttle fino a Weeping Rock, da dove iniziamo a percorrere l’omonimo facile sentiero lungo all’incirca ottocento metri, il quale conduce i visitatori a farsi una breve doccia derivante dal leggero gettito d’acqua proveniente dalle soffitta di un arco naturale scavato nella roccia. Anche qui, la visuale offerta dalle formazioni rocciose di Zion e della vallata circostante è semplicemente suggestiva. Riprendiamo ancora la navetta, stavolta in senso contrario, fino allo Zion Lodge, dal quale, dopo aver acquistato e consumato un gelato, che costituirà il nostro pranzo odierno, saliamo in macchina e lasciamo definitivamente lo Zion, parco nazionale che ha saputo regalarci intense emozioni e che mi riprometto sin d’oggi di rivisitare prima o poi.

 

La strada per Bryce scorre veloce, regalandoci alcuni tratti paesaggistici altamente spettacolari, che perdono tuttavia progressivamente bellezza nei colori a causa dell’ennesimo brusco annuvolamento della giornata, che però stavolta non scompare in breve, come nell’arco della trascorsa mattinata, ma ricopre invece interamente il cielo di nuvoloni neri stracarichi di pioggia, la quale non tarda a scendere, tra l’altro in forma abbastanza violenta. Proseguiamo il viaggio sotto il diluvio universale, ma quello che più ci colpisce arrivando a Bryce nel primissimo pomeriggio, sono i venti gradi in meno rispetto a stamattina. Abbiamo riservato una stanza al Best Western Bryce Canyon Grand, il quale sorge dalla parte opposta della strada rispetto al celebre Ruby’s Inn. La stanza con i due Queen Beds assegnataci risulta enorme, pulita e veramente nuova. Lasciamo i bagagli, infiliamo velocemente le felpe e ripartiamo alla volta del Bryce Canyon National Park, puntando direttamente sul Sunset Point, dove restiamo completamente esterrefatti dinnanzi allo scenario che si presenta ai nostri occhi. Sì, perché nonostante avessimo visto Bryce attraverso centinaia di foto, video, e reportage vari, lo spettacolo dal vivo delle centinaia di Hoodos che lo caratterizzano ci lascia letteralmente senza parole. Inoltre, il cielo di questo pomeriggio, a tratti inverosimilmente violaceo, attraverso il quale filtrano talvolta anche solo parzialmente i raggi del sole, che illuminano magicamente i sottostanti hoodos, contribuisce a rendere ancor più surreale, anche a livello cromatico, questo impareggiabile spettacolo. Restiamo diverso tempo attoniti a contemplare questa magnificenza della natura, dopodiché imbocchiamo il Navajo Trail, iniziando a scendere verso il basso, con lo sguardo perso sui molteplici pinnacoli erosi nel tempo, i quali appaiono così straordinariamente bizzarri, da indurre quasi il visitatore a non credere che siano davvero originati da madre natura. Il trail, che si articola zigzagando in discesa, è davvero piacevole, mentre la successiva salita lungo il Queen’s Garden Trail, la quale ci condurrà sul Sunrise Point, risulterà a tratti leggeremente sfiancante, ma il luogo è davvero magico, così come appare irreale il silenzio che ci circonda, rotto a tratti solo dallo sbuffare a pieni polmoni dei vari visitatori, che si cimentano nella salita. Raggiunto nuovamente a piedi il Sunset Point, riprendiamo l’auto e ci dirigiamo nei due successivi view point, ovvero l’Inspiration Point ed il Bryce Point, che ci regalano entrambi ulteriori fantastiche emozioni. Il Bryce Canyon è un’autentica meraviglia della natura e risulterà, anche a fine viaggio, il parco che avrò personalmente preferito tra quelli visitati, ritenendolo uno di quei posti che, almeno una volta nella vita, andrebbero assolutamente visti. Concludiamo questa estasiante giornata con delle succulente bistecche nel ristorante del Ruby’s Inn, con negli occhi ancora vive la suggestive immagini dei mille pinnacoli di questo parco fatato.

 

20 Agosto 2013 –  Bryce Canyon National Park/UT-12/Capitol Reef/Goblin Valley/Moab

 

Lasciamo Bryce molto presto, iniziando a percorrere la UT-12, una Scenic Byway che presenta talmente tante attrattive, che occorrerebbe quasi dedicarle un viaggio a parte.

Il tempo è uno schifo, con un cielo scuro colmo di nubi che non promettono nulla di buono, e secondo l’itinerario che ci siamo prefissati quest’oggi, oltre cinquecento chilometri ci dividono attualmente da Moab, dove dormiremo stasera. Sostiamo in alcuni punti per scattare qualche foto di rito, mentre ogni tanto le nuvole si diradano, facendo filtrare qualche pigro raggio di sole, poi, mentre lungo il percorso il paesaggio tende a variare continuamente, effettuiamo sotto una pioggia battente un’unica tirata fino a Boulder, dove sostiamo per visitare il piccolo Anasazi State Park Museum, nel quale ne approfittiamo per sgranchirci le gambe, ed apprendere contestualmente qualcosa sull’affascinante cultura Anasazi, quale giusto preludio alla visita che effettueremo tra qualche giorno alla Mesa Verde in Colorado. Proseguiamo la nostra marcia fino a Torrey, dove, sotto un cielo plumbeo, voltiamo sulla UT-24 in direzione del Capitol Reef National Park, che inizia sin da subito a regalarci scorci paesaggistici di assoluta bellezza, malgrado la nuvolosità diffusa tenda a non rendere reale giustizia ai colori. Superato il visitor center e l’oasi di Fruita, imbocchiamo la Scenic Drive, che percorriamo ammaliati dalla spettacolarità dei panorami che si susseguono ai nostri occhi, costituiti dalle imponenti formazioni rocciose tagliate in due dal sottile nastro d’asfalto della strada. Prendiamo successivamente uno sterrato che, insinuandosi a serpentina tra le alte pareti verticali delle rocce, ci conduce al Capitol Gorge, una gola dove sembra che decine di pionieri vi persero la vita nel diciannovesimo secolo a bordo dei loro carri. L’omonimo trail, che si sviluppa in lunghezza per un paio di chilometri circa, è facile da percorrere, anche se non particolarmente suggestivo, e ci regala la visuale di alcuni petroglifi, oltre alle incisioni dei medesimi pionieri. Torniamo indietro lungo la Scenic Drive, mentre il sole continua a giocare a nascondino con le nuvole, illuminando ogni tanto l’orizzonte e rendendo la conseguente visione d’insieme particolarmente suggestiva. Tornati sulla strada principale, ci fermiamo poco dopo ad ammirare altre pitture rupestri facilmente accessibili dalla carreggiata, dopodiché, in poco meno di un’ora circa, copriamo velocemente le 50 miglia che ci separano da Hankesville, dove sostiamo per il pranzo presso un infimo locale attiguo ad un distributore. Proseguendo lungo la UT-24, imbocchiamo in breve dapprima la Temple Mt. Road, e successivamente la Goblin Valley Road che, in una decina di minuti ci conduce nel Goblin Valley State Park, le cui prime curiose formazioni rocciose che lo caratterizzano iniziano a manifestarsi con stupore ai nostri occhi, ma tutto ciò non è nulla rispetto a quanto vedremo una volta parcheggiata l’auto, ed iniziato a percorrere il trail che si sviluppa ai piedi di questi sorprendenti innumerevoli pinnacoli dalle forme assolutamente bizzarre, che più dei folletti, ricordano per certi versi dei funghi. Ci spostiamo attoniti in questo mondo fatato composto da rocce che cambiano continuamente colore a seconda di quanto riescono a filtrare i raggi solari attraverso le nuvole. Siamo completamente soli, non ci sono altri visitatori nella parco, quando il sole riesce a splendere fa anche decisamente caldo, ma sembriamo non avvertirlo minimamente, considerato  che quanto stiamo vivendo è assoluta magia.

 

Quasi cento miglia ci separano da Moab, dove arriviamo attorno alle diciannove. Prendiamo possesso dell’infuocata camera prenotata all’Inca Inn, poi ci tuffiamo nella minuscola piscina del motel per ritemprarci dalla lunga strada percorsa quest’oggi. Due ghiacciate Deadhorse Ale nella Moab Brewery, suggelleranno degnamente questa stancante, intensa, ma soddisfacente giornata.

 

 

21 Agosto 2013 –  Canyonlands (Island in the Sky)/Deadhorse Point State Park/Arches NP

 

Quando usciamo dalla stanza dell’Inca Inn è ancora buio. Oggi abbiamo in programma una giornata particolarmente intensa, che alla fine si congederà lasciandoci in dote anche il secondo grande rammarico di questo viaggio, ed un conseguente motivo in più per ritornare da queste parti. Ma andiamo con ordine. Ci dirigiamo immediatamente al Canyonlands National Park, sezione Island in the Sky, per assistere al sorgere del sole dal Mesa Arch, senza aver fatto però i conti con un cielo completamente nuvoloso, che ci priverà del suddetto spettacolo, sul quale avevo fantasticato per mesi, dopo averlo ammirato attraverso numerose immagini. Pazienza, aspettiamo ugualmente fino a quando non intravediamo delinearsi un minimo di azzurro, a dire il vero quasi invisibile, al fine di scattare almeno qualche foto decente, contemplando contestualmente il sottostante panorama che, inutile dirlo, è però semplicemente favoloso. Percorriamo quindi in auto un breve tratto di strada a ritroso, fino al punto in cui sostiamo ad ammirare nitidamente la spettacolare serpentina dello Shafer Trail, ed il suggestivo paesaggio circostante. Puntiamo dunque, senza troppi indugi, direttamente sul Grand View Point Overlook, iniziando a percorrerne il facile e pianeggiante trail, che si sviluppa per circa un miglio lungo il bordo del rim, mentre contemporaneamente il cielo ha deciso di aprirsi, seppur a tratti solo parzialmente, regalandoci delle visuali assolutamente fantastiche. Ne approfittiamo per immortalare questi surreali paesaggi, constatando quanto sia impressionante il vuoto che si apre immediatamente sotto di noi, anzi, talvolta quasi in prossimità dei nostri stessi piedi. Completiamo il facile trail, che notiamo essere comunque poco percorso dai visitatori fino in fondo, dopodiché torniamo indietro, ed una volta ripresa l’auto, ci dirigiamo in breve presso il vicino Dead Horse Point State Park, raggiungendo agevolmente il celeberrimo overlook, dal quale ammiriamo compiaciuti il fiume Colorado compiere un surreale giro a forma di ferro di cavallo attorno delle frastagliate scogliere verticali erose nel tempo dagli elementi naturali ed atmosferici, creando un’incantevole visuale d’insieme, per certi versi assolutamente estasiante, tanto che la domanda del giorno, che sorge a questo punto del tutto spontanea, è: “ma quante assolute meraviglie annovera questo Utah”? Torniamo a Moab, fermandoci da Denny’s per il pranzo, poi ripartiamo alla volta di Arches National Park, perfettamente consci che dovremo gioco forza fare una necessaria cernita dei posti da vedere, pagando dazio alla mia errata rivisitazione del programma di viaggio, il quale prevedeva inizialmente di dedicare un giorno intero a Canyonlands ed un altro ad Arches. Ormai però il dado è tratto, quindi varchiamo l’ingresso del gate, dove per la prima volta dall’inizio del viaggio, la ranger addetta al controllo mi chiede anche il passaporto insieme all’annual pass, ed effettuiamo poco dopo il primo stop al viewpoint di Park Avenue dove, sebbene non siano presenti gli archi per il quale il parco è famoso, la bizzarra forma delle rossastre pareti verticali è ugualmente di grande impatto scenografico, e potrebbe per certi versi effettivamente ricordare la sagoma dei grattacieli di New York, da cui il sito prende il nome. Raggiungiamo quindi Balanced Rock, dove parcheggiamo l’auto iniziando a percorrere il breve trail che gli si snoda intorno, ammirando da più angolature questo singolare roccione, che sembra quasi tenersi in bilico in base a qualche prodigiosa legge delle fisica. Fa molto caldo, ma i posti sono così straordinariamente belli che sembriamo non farci caso, nonostante il cielo si è quasi completamente aperto rispetto a questa mattina, ed è tornato a splendere un gran sole, che illumina magistralmente le rocce circostanti. Ci approcciamo quindi a raggiungere la Windows Section, di cui iniziamo a vedere i primi archi in lontananza. Il facile trail in partenza dal parcheggio ci conduce dapprima alla North e South Window e successivamente al Turret Arch. L’autentico capolavoro visivo composto dal rosso delle rocce, i maestosi quanto assolutamente spettacolari archi in pietra, l’azzurro intenso del cielo, raffigura nel suo complesso un’immagine pressoché ipnotica, che potrebbe anche indurre il visitatore a fissarla per ore senza distoglierne lo sguardo, talmente tanta è la sua inverosimile bellezza. Torniamo al parcheggio, da cui iniziamo il percorso che in breve ci accompagna al cospetto del celebre Double Arch, altro arco dalla dimensioni titaniche, al di sotto del quale i visitatori appaiono proporzionale come delle formiche. A questo punto, avviandosi le lancette dell’orologio prepotentemente verso le diciannove, dobbiamo scegliere se effettuare il trail che conduce al Delicate Arch, tra l’altro in quasi perfetto orario per il tramonto, tralasciando quindi completamente Devils Garden, oppure recarci al viewpoint del Delicate Arch e provare successivamente a vedere almeno uno degli archi della zona di Devils Garden. Qualunque sia la scelta, ci priverà inevitabilmente di qualcosa d’importante. Ci consultiamo rapidamente, decidendo di comune accordo di vedere il Delicate dal viewpoint, così partiamo a spron battuto, ed una volta parcheggiata l’auto, c’incamminiamo lungo la salita che conduce all’upper viewpoint, dal quale la star del parco ci appare nitidamente in tutta la sua magnificenza. Non è ovviamente la stessa cosa arrivare fino alla sua base rispetto al poterlo ammirare solo da questo punto, ne siamo oltremodo consapevoli, però il Delicate Arch, anche visto in lontananza, è qualcosa di assolutamente spettacolare. Riprendiamo l’auto, spostandoci in breve al Devils Garden Trailhead, da cui imbocchiamo il trail che si sviluppa per circa 1,6 miglia tra andata e ritorno fino al Landscape Arch, che andrebbe però visto al mattino onde evitare di trovarsi controluce, ed inoltre sta ormai progressivamente tramontando con il risultato che troviamo sia lo spettacolare arco, che tutta la zona circostante ormai completamente privi di colori. Però è ugualmente tutto così magnifico, eccezionalmente magnifico, da farci ripromettere seduta stante che anche Arches meriterà in futuro una nuova ed approfondita visita. Torniamo per la seconda sera consecutiva alla Moab Brewery, brindando con enfasi allo Utah, che in questi giorni ha saputo regalarci indelebili emozioni.

22 Agosto 2013 – Moab/Mesa Verde National Park/Monument Valley

 

Percorrendo la US-191 in direzione sud, lasciamo Moab di buon mattino, imboccando successivamente all’altezza di Monticello la US-491, che in breve c’introduce in Colorado. Dopo innumerevoli rallentamenti dovuti al rifacimento del manto stradale, alle dieci in punto varchiamo la soglia del Colorado Welcome Center, ubicato al 928 della Main Street di Cortez. Lo scopo della nostra visita non è quello di conoscere le tante meraviglie del Colorado, al quale dedicheremo auspicalmente in futuro un prossimo viaggio, quanto prenotare tramite il centro una visita guidata in una delle Cliff Dwellings più celebri della Mesa Verde National Park, guadagnando in questo modo tempo prezioso. La nostra scelta si rivela oltremodo saggia, in quanto riscontriamo fino al  pomeriggio inoltrato zero possibilità d’effettuare la visita della Balcony House, mentre possiamo acquistare tre dei pochi biglietti ancora disponibili per visitare il Cliff Palace alle ore dodici. Ripartiamo quindi velocemente, raggiungendo il parco e la sezione della Chapin Mesa con quarantacinque minuti circa d’anticipo rispetto all’orario prefissato per il tour guidato, e ne approfittiamo di conseguenza per effettuare un interessante giro all’interno del Chapin Mesa Archeological Museum, il quale illustra la vita delle popolazioni ancestrali che abitarono questi luoghi, con particolare riferimento agli Anasazi, civiltà per certi versi tutt’oggi ancora misteriosa. Ci spostiamo quindi ancora in auto fino al sito, facendo la conoscenza del ranger che ci accompagnerà durante la visita e potendo contestualmente ammirare dall’altro il Cliff Palace in tutto il suo inverosimile splendore, che richiama alla mente per certi versi un teatrino di cartapesta. Una volta radunati tutti i partecipanti, ci vengono chieste per familiarizzare le rispettive nazionalità, constatando di essere curiosamente gli unici italiani presenti nel nutrito gruppo. Iniziamo quindi a scendere, sostando successivamente in attesa che i partecipanti alla visita precedente completino il proprio giro, prima di poter accedere al celebre Cliff Dwelling. Il ranger inizia a sciorinare ripetutamente parole e battute seguite da altrettante fragorose risate da parte dei turisti, e proseguiamo così per una decina di minuti abbondanti, con lo sguardo però fisso, almeno per quanto ci riguarda, sulla bellezza del vicino Cliff Palace, magistralmente ubicato in una rientranza della roccia alta quasi ventri metri e profonda poco meno di una trentina. Battute e risate, risate e battute, andiamo avanti in questo modo ad oltranza, almeno fino a quando una ragazza dell’est Europa non spegne sul nascere le nuove risa suo malgrado, cadendo di colpo quasi fosse una pigna secca e rimanendo stesa al suolo completamente priva di sensi. Vengono immediatamente attivati i soccorsi, che in breve sopiscono però le nostre preoccupazioni, rianimandola. Il caldo asfissiante, associato al digiuno, debbono aver giocato un brutto scherzo nei confronti di questa sfortunata turista. Arriviamo quindi nel cuore dello spettacolare antico villaggio costruito nella roccia, il più grande del parco nazionale di Mesa Verde, il quale annoverava complessivamente centocinquanta stanze, oltre venti delle quali erano kivas, ovvero ambienti per lo più sotterranei ad uso cerimoniale. La visita si dimostra alquanto interessante, malgrado il sito in questione, colpisce a mio avviso il visitatore maggiormente dall’alto, grazie alla sua visuale ad alto impatto scenografico, che definirei per certi versi quasi irreale. Usciamo dal Cliff Palace mediante una scala a pioli fissata pressappoco verticalmente lungo una parete rocciosa, dopodiché raggiungiamo nuovamente la zona del museo, dalla quale c’incamminiamo alla volta della Spruce Tree House, altro famoso Cliff Dwelling del parco, fruibile individualmente da tutti i visitatori anche durante questo periodo dell’anno, nonostante alcuni rangers presiedano attentamente l’area circostante. Completata la piacevole visita, raggiungiamo una delle tante zone attrezzate con tavoli e panche presenti all’interno del parco, approfittandone per improntare il nostro consueto picnic giornaliero. Sono all’incirca le quindici quando ci rimettiamo in marcia, avendo davanti a noi all’incirca centocinquanta miglia da percorrere fino alla Monument Valley, che sembreranno però centuplicarsi a causa degli innumerevoli lavori in corso che incontreremo lungo la nostra marcia, tanto che ci verrà inevitabilmente da chiederci se non stiano asfaltando l’intero Colorado. Nel frattempo, una volta rientrati nello Utah quel cielo limpido che aveva finora caratterizzato questa giornata perde progressivamente tonalità, fino a diventare quasi completamente grigio a causa della cospicua presenza di nuvole, che rendono quell’immagine stereotipata della Monument immortalata in lontananza lungo la 163 delicatamente priva di colore, malgrado la visuale resti ugualmente da cartolina e ci catapulti come per magia indietro nel tempo, rendendoci protagonisti dal vivo su un set cinematografico ampliamente radicato nelle nostre memorie. Le lancette hanno da poco superato le diciotto e trenta quando iniziamo a percorrere la prima delle diciassette miglia del loop che si articola attraverso le straordinarie buttes della Monument Valley, maledicendo le nubi che sembrano aver offuscato i colori del luogo, tante volte ammirati in numerose immagini, sebbene la visuale dei paesaggi circostanti trasmetta ugualmente emozioni uniche. Poi, come d’incanto, proprio sulla via del ritorno, mente stavamo percorrendo le ultime miglia, ecco l’assoluta magia apportata dal sole che, filtrando attraverso le nuvole, illumina magnificamente parte delle zone sottostanti, infiammando le spettacolari e celebri formazioni rocciose che contraddistinguono la valle, la quale ci omaggia in questo modo di uno spettacolo assolutamente straordinario. Prendiamo successivamente possesso della nostra stanza al The View, la quale offre una veduta mozzafiato sui buttes circostanti. Dopo una discreta cena, con una menzione particolare per i navajo tacos, ne approfittiamo per usufruire del wi-fi disponibile nella hall, poi ci sediamo fuori a vedere per qualche minuto uno spezzone di film proiettato su una parete dell’hotel ed ambientato nemmeno a dirlo nei dintorni, che vede come protagonista ovviamente il mitico John Wayne, ed anche se mi sembra il tutto un po’ kitch, e quel genere di films contemplavano sempre i soliti cattivi, credo anche che nel contesto ci possa tutto sommato stare, considerato che proprio lì, a breve distanza da noi, vigilano imperterrite quelle sentinelle in pietra che con le loro icone hanno caratterizzato un’epoca cinematografica, seppur a mio avviso quantomeno discutibile.

 

 

23 Agosto 2013 – Monument Valley/Page

Lo spettacolo dell’alba alla Monument Valley è di quelli che valgono da soli il viaggio. Osservo in lontananza la veranda del The View Hotel gremita di gente, ma godersi il sorgere del sole dal proprio balcone, sorseggiando una tazza di caffè bollente in religioso silenzio, ritengo sia impareggiabile.

Facciamo colazione con calma, dopodiché carichiamo i bagagli e lasciamo velocemente l’hotel, percorrendo in appena un paio d’ore le centoventicinque miglia che ci separano da Page, dove spostiamo di un’ora indietro le lancette degli orologi. Raggiungiamo in breve il 22 di South Lake Powell Blvd, dov’è ubicata la sede dell’Antelope Canyon Tours, con il quale abbiamo prenotato l’escursione nell’Upper Antelope Canyon e, dopo aver visto esposto un bel cartello indicante il full booked per tutta la giornata, ritengo che l’aver riservato con mesi di anticipo il tour nell’orario più richiesto delle 11:30, sia stata una scelta più che giusta. L’agenzia è gremita di gente, si riesce a malapena a respirare, e non è certo un buon segnale. Comunque sia, una volta riscontrata e pagata la prenotazione, ci fanno uscire tutti al di fuori dividendoci in vari gruppi, e successivamente, fatta la conoscenza di colei che sarà la nostra guida Navajo, saliamo a bordo di un enorme pick-up e ci dirigiamo alla volta dell’Upper Antelope Canyon, raggiungendolo in breve. Ci indirizziamo quindi verso l’ingresso di questo celebre slot canyon, originato dalla lenta erosione dell’arenaria, generata negli anni dalla forza delle potenti inondazioni comunemente chiamate flash flood, tutt’ora comunque possibili, considerato che nel 1997 undici sfortunati turisti persero la vita nel vicino Lower Antelope Canyon. Malgrado la folla, l’interno del canyon, costituito dall’alternarsi di diversi corridoi rocciosi caratterizzati da bizzarre forme ondulate create negli anni dalla costante levigazione della roccia, è veramente suggestivo. Continuiamo il nostro percorso, finché, una volta giunti nel famoso punto in cui intravediamo i light beams, ovvero gli spettacolari e celeberrimi raggi di luce solare che scendono direttamente dal soffitto, le guide si avvicendano lanciando della sabbia in aria per enfatizzarli e consentire in questo modo ai propri gruppi di scattare le conseguenti quanto pressoché obbligate fotografie, anche se in verità, la sabbia che si disperde nell’aria non regala a mio avviso l’immagine migliore dei suddetti fasci di luce, riscontrabili principalmente nei mesi estivi proprio verso quest’ora, grazie alla perpendicolarità dei raggi solari, che penetrano verticalmente attraverso le spaccature presenti nella parte superiore del canyon. La regola non scritta dovuta al buon senso, e l’educazione, imporrebbero inoltre che, una volta scattate le foto ed incitati dalla propria guida a proseguire oltre, si lasciasse spazio ai gruppi successivi, ma debbo purtroppo constatare come, alcuni componenti del gruppo che ci precede, tra l’altro nemmeno a farlo apposta italiani, continuassero a tornare indietro incuranti dei richiami della guida a proseguire oltre. La perseveranza riesce però a premiarmi, così, tra i vari scatti effettuati, riesco ad immortalare l’Upper Antelope Canyon come viene sovente raffigurato nella migliore tradizione, ovvero nella sua più completa naturalezza, senza l’espediente della sabbia lanciata in aria, portandomi di conseguenza a casa un ricordo pressoché indelebile di questo slot canyon quest’oggi affollato fino all’inverosimile, ma nello stesso tempo straordinariamente incantevole.

Torniamo quindi a Page, dove gironzoliamo un po’ senza meta, e dopo aver pranzato con un cono gelato, riprendiamo l’auto dirigendoci in direzione sud lungo la US-89 alla volta dell’Horseshoe Bend, trovando riscontro, poco oltre la deviazione per l’omonimo parcheggio, circa quanto precedentemente appreso in merito alla chiusura della medesima strada, il che ci obbligherà di conseguenza domani ad una forzata quanto lunga deviazione per raggiungere il Grand Canyon. Concentriamoci però ora sull’Horseshoe Bend, che ci apprestiamo ad ammirare proprio quando contestualmente il cielo ha iniziato a coprirsi di nuvole, e malgrado faccia ugualmente molto caldo, lungo il facile sentiero che lo divide dal parcheggio non possiamo fare a meno di notare due turiste asiatiche completamente coperte dalla testa ai piedi, con tanto di tacchi a spillo ed ombrellino incorporato. Stranezze della vita. Il profondo meandro del Colorado che si presenta ai nostri occhi, impreziosito da sinuose forme che effettivamente rammentano un enorme ferro di cavallo ubicato in fondo allo strapiombo, è di una bellezza straordinariamente unica, che ci induce a sederci osservandola compiaciuti per diverso tempo, totalmente assorti in una sorta di mistica contemplazione al cospetto dell’ennesimo spettacolo che la natura offre a queste latitudini. 

Letteralmente entusiasti, torniamo verso l’auto, muovendoci spediti verso il Lake Powell, il quale però non ci entusiasma particolarmente, malgrado alcune belle visuali offerte da uno dei viewpoint presenti lungo la Lake Shore Dr, poco oltre la diga di Glen Canyon. Dopo una nuotata rigenerante nella piscina coperta del Comfort Inn & Suites, ottima e nuova struttura ubicata molto vicino alla US-89 nella parte sud del paese, ed una successiva visita nel vicino Walmart, ci rechiamo per una pessima cena al Bonkers Restaurant, comunque stranamente pieno di clienti. Poco importa, anche questa è stata una giornata da incorniciare, l’ennesima di questo avvincente viaggio.

 

24 Agosto 2013 – Page/Grand Canyon

Ennesima sveglia di buon mattino. I lavori con conseguente chiusura della US-89 ci costringono a percorrere la 98 e successivamente la 160 per raggiungere il Grand Canyon, facendoci perdere tempo prezioso, oltre a macinare, tanto per gradire, una novantina di chilometri in più. Aggiungiamoci, inoltre, che proprio quando imbocchiamo l’AZ64 il cielo si oscura completamente, la temperatura cala a tempo di record, ed in breve inizia a piovigginare. Bene, anzi, male… nel frattempo siamo arrivati all’ingresso del più celebre dei canyon dell’Arizona, dove ci fermiamo per le classiche foto di rito. Percorriamo quindi la Kaibab Trail Route, sostando ai vari belvedere che si susseguono, tra i quali vale senza dubbio a mio avviso menzionare Yavapai Point, Yaki e Mather Point, mentre la pioggia cade ora violentemente, costringendoci in breve a rimanere chiusi in macchina. Ne approfittiamo per inoltrarci oltre, raggiungendo sotto un diluvio universale il parcheggio de El Tovar Hotel. A questo punto però la premessa è quantomeno d'obbligo: da bambino vidi in tv un reportage sul Grand Canyon, nel corso del quale descrivevano con enfasi anche questo storico hotel, che sollecitò la mia fantasia al punto tale che crebbi identificandolo proprio con il simbolo dell'Arizona, ed è inutile aggiungere che, malgrado il costo non propriamente irrisorio, quando qualche mese fa programmai il pernottamento al Grand Canyon NP non ebbi alcun dubbio, prenotando senza nessun indugio El Tovar... per la serie: turbe mentali! Il posto è però davvero molto bello e ricco di fascino, sebbene le camere non siano a mio avviso granché, tanto che con il fatidico senno di poi, malgrado la posizione davvero eccezionale, letteralmente a strapiombo sul south rim, direi che a conti fatti il gioco non vale la candela, e non finisce certo qui, poiché, non contento, ho anche prenotato la cena odierna nel celeberrimo El Tovar dining room ! Andiamo però con ordine. Posati i bagagli in camera prendiamo al volo lo shuttle della Village Route (blu), fino all'interscambio con la linea identificata in rosso della Hermits Rest Route, dopodiché, scendendo ad ogni fermata, sostiamo nei primi viewpoint, e risaliamo sullo shuttle successivo. Osserviamo per la prima volta dal vivo l'iconica immagine costituita dal fiume Colorado che si articola sul fondo del canyon, al di sopra del quale ha scavato nei secoli la roccia, plasmando mastodontiche forme bizzarre, mentre nel frattempo le nuvole iniziano a diradarsi, conferendo colore all'ambiente circostante rimasto finora in penombra e rendendo suggestivo l'insieme, così a Mohave Point lasciamo le navette e c'incamminiamo lungo il Rim Trail, fino a raggiungere poco prima del tramonto Hermits Rest. Il Grand Canyon del Colorado è indubbiamente maestoso, ma forse per il fatto di averlo lasciato per ultimo, dopo aver visitato altri parchi che ci hanno sovente emozionati durante questo primo viaggio effettuato nel sudovest degli Stati Uniti, non ci entusiasma particolarmente. Probabilmente, percorrendo un impegnativo trail tipo il Bright Angel, che permette ai visitatori di scendere fino in fondo al Canyon, oppure visitando il parco nel north rim, ne avremmo forse ricavato un'impressione diversa, ma quest'oggi, nonostante la giornata sia stata sicuramente piacevole e malgrado ritengo senza ombra di dubbio che la sponda sud del Grand Canyon National Park vada assolutamente vista, credo che a differenza di altri parchi visitati, non tornerei in futuro da queste parti. Torniamo tramite navette shuttle in hotel, ci facciamo una meritata doccia di rito, dopodiché, profumati come una rosa scendiamo nella formale Dining Room de El Tovar, che troviamo letteralmente gremita. Cena squisita, una bistecca memorabile ma consumata in un ambiente forse un po' troppo formale per i miei gusti, tavolo posizionato a mille metri dalla finestra che si affaccia sul rim, conto aihmè idoneo ad un petroliere. Buona notte Grand Canyon !

 

25 Agosto 2013 – Grand Canyon/Las Vegas

Piove incessantemente sin dal primo mattino, mentre la temperatura non supera i cinque gradi quando ci accingiamo a lasciare il Grand Canyon. Durante il tragitto, nonostante l'acqua cade sempre più violentemente, copriamo in appena quattro ore i 440 chilometri che ci separano da Las Vegas, arrestando poco dopo le dodici la nostra marcia presso il parcheggio del Las Vegas Premium Outlets South, dove eravamo già stati otto giorni fa. Il clima, complice la perturbazione che sta imperversando ormai da qualche giorno a queste latitudini, è però più gradevole, rendendo sopportabile anche la fantomatica calura di Vegas. Entriamo comunque nel refrigerio dell'outlet, dove trascorriamo qualche ora facendo acquisti, poi, verso le diciassette torniamo nell'attiguo ed affollato Buffalo Wild Wings. Aspettiamo un po' che si liberi un tavolo, mentre la musica rimbomba a tutto volume e sui megaschermi delle pareti vengono proiettati incontri di football. Poi, all'improvviso, riecheggiano nell'aria le parole "reach out touch faith" e personal Jesus esplode nel locale coinvolgendo parte degli avventori, che iniziano a cantare in un comune senso di allegria.

E' tutto così entusiasmante, ma solo ora mi rendo però effettivamente conto che questo viaggio sta volgendo al termine. Poco dopo la mezzanotte, lasceremo infatti questa parte di mondo, che ci ha entusiasmati con le sue meraviglie durante questi intensi giorni. Domani sbarcheremo ancora una volta nelle nostre amate Virgin Islands, diventate ormai un classico di fine agosto, ma questa è un'altra storia, mentre quello di cui sono indubbiamente ormai certo, è che quello appena trascorso è stato il primo di una serie di viaggi on the road negli USA.