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Thailandia (Dicembre 2008 - Gennaio 2009)

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Double farang: da Chiang Mai a Mae Hong Son

Mentre mi appresto ancora una volta a rimetter piede sul suolo thai, ripenso d’impulso a quanto scrissi qualche anno fa, laddove cercavo una plausibile spiegazione circa le motivazioni che m’inducevano periodicamente a tornare da queste parti. Pensai inizialmente, che i motivi si potessero facilmente addurre all’oggettivo dato di fatto che vede il paese universalmente riconosciuto come estremamente ospitale, grazie anche e soprattutto alla sua gente, sempre cordiale, amabile, disponibile, oltre che di continuo pronta a regalarti un sorriso, aldilà dello scontato rapporto turistico che ci lega durante un viaggio; oppure, più semplicemente, perché tornare in Thailandia significa potersi nuovamente inebriare della sua straordinaria natura, la quale sembra ogni volta quasi divertirsi ad incantarmi come un bambino; perché adoro quel senso di incredibile spiritualità, che avverto passeggiando serenamente nei suoi Wat, o perché mi affascina la sua intrigante, variegata e secolare cultura, od ancora perché amo la sua cucina, così saporita, speziata e piccante, oppure perché...

Pur cercando una banale spiegazione, che forse presa singolarmente non può esistere, compresi quindi ben presto che vi tornavo sempre volentieri, probabilmente anche perché, avrei potuto facilmente trovare altri mille motivi per giustificare proprio quell’ennesimo perché che stavo cercando. Comunque, pur avendo in seguito apposto nuovamente il timbro thai sul mio passaporto, oggi, quasi alla fine di questo 2008, qualcuno di quei fantomatici perché, o più verosimilmente tutti assieme, mi hanno ricondotto ancora una volta qui, in questo meraviglioso paese, atterrando stavolta nel nord. 

Il primo impatto con Chiang Mai è positivo. Dopo aver superato il canale ed i resti delle vecchie mura orientali appartenenti al quadrilatero che la delimitano, passeggiamo spensieratamente tra le vie della città vecchia, la quale si presenta decisamente a misura d’uomo. Qualche tuk-tuk che sfreccia velocemente nel debole traffico, alcuni sawngthaew colorati di rosso, dei locali alla buona, diversi monaci con le loro caratteristiche tuniche arancioni intenti a raccogliere le offerte del primo mattino, nonché un po’ di chioschi disseminati alla rinfusa lungo i lati delle strade, che emanano un gradevole ed invitante odore di cucinato.  

Sì, è nuovamente Thailandia.

Finalmente Thailandia.  

Chiang Mai sembra annoverare circa trecento Wat, diversi dei quali disseminati in pieno centro. Il tempo però si sa, è spesso tiranno, tanto da indurci a ridurne drasticamente il numero, scegliendo di visitarne solo alcuni tra i più importanti, così, per la modica cifra di centocinquanta baht, poco più di tre euro, trascorriamo la mattinata facendoci scorazzare in tuk-tuk da una gentile signora tra il Wat Chedi Luang, il Wat Pra Singh, ed il Wat Chiang Man, tutti meritevoli di una visita, sebbene la mia personale preferenza ricada senza dubbio sul primo per il suo aspetto innegabilmente poco sfarzoso, antico e decadente, il quale ospitava un tempo nientemeno che il veneratissimo Buddha di Smeraldo, oggi scrupolosamente custodito nel Wat Phra Kaew di Bangkok. La sacralità di questi templi è quasi palpabile, ed anche chi come noi non riesce a cogliere i profondi significati legati alle singole gestualità, non può che mostrare sentito coinvolgimento in segno di rispetto dinnanzi alle tante persone così intimamente impegnate a pregare. Il Wat Phra Sing ospita la statua del Buddha più venerata della città, e qui attorno è tutto un pullulare di monaci, per la gran parte molto giovani, che sembrano tinteggiare d’arancione l’ambiente circostante, mentre il Wat Chiang Man viene accreditato da diversi archeologi come il più antico tempio di Chiang Mai, essendo fatto edificare nientemeno che da Mengrai, il fondatore della città nel 1296.   

Anche se ho personalmente preferito la Sunday Walking Street, ovvero la centralissima ed intasata Thanon Ratchadamnoen, che durante le domeniche sera viene chiusa al traffico per trasformarsi in un enorme e coloratissimo mercato comprendente decine e decine di bancarelle che vendono mercanzie e cibarie varie, il visitatore a Chiang Mai non credo possa esimersi dal compiere almeno una passeggiata serale di rito attraverso il celeberrimo Night Bazaar, mastodontico e caotico mercato, che abbraccia parecchi isolati lungo Thanon Chang Khlan, dove centinaia di venditori ambulanti di paccottiglia turistica e falsi capi griffati si alternano a negozietti seminascosti che espongono autentico artigianato locale, argenteria, e ceramica. Durante la nostra permanenza in città testeremo con soddisfazione anche le due ampie zone attigue al mercato dedite alla ristorazione, quale il Kalare Food Centre, che sovente ospita anche gratuiti spettacoli di danze tradizionali, ma soprattutto il mercato notturno di Anusan, autentica esplosione di aromi e colori, dove i wok lavorano incessantemente sprigionando nell’aria intensi profumi, ma nel quale recitano un ruolo da assoluti protagonisti soprattutto i locali ed i banchetti specializzati in piatti di pesce. Pesce a Chiang Mai? Sì, oltretutto freschissimo, ed anche di pregevole qualità, importato quotidianamente da Bangkok. Aragoste lunghe quanto un braccio, gamberoni abnormi e molteplici specie di pesce fanno bella mostra di sé su dei giganteschi letti di ghiaccio, invogliando file di avventori ad ordinarli per imbandire sontuosamente la propria tavola.

 Sembrerebbe che i francesi siano stati tra i primi occidentali ad avere dei contatti con i thai, e qualche teoria sostiene anche che, proprio dalla storpiatura della parola française in farangse, deriverebbe il termine “farang”, comunemente usato quest’oggi per indicare gli stranieri, o più propriamente i turisti occidentali. Salendo sul Wat Phra That Doi Suthep, uno dei templi più venerati dell’intera Thailandia, ubicato in prossimità della vetta collocata nell’omonimo parco, da cui si gode una bella visuale della sottostante Chiang Mai, sperimentiamo una costante che ci accompagnerà nel proseguo del nostro viaggio qui al nord, ovvero la nutritissima presenza di turismo thai. In tutti i posti che visiteremo, la grandissima maggioranza degli altri visitatori incontrati saranno thailandesi, soprattutto provenienti da Bangkok. Amplierò a dismisura la mia rubrica telefonica di contatti, ed avrò l’agenda già piena di impegni per quando visiterò la prossima volta la capitale grazie alle tante persone conosciute, ma anche questo viaggio in sé stesso prenderà una piega diversa, poiché saremo in ogni luogo visitato doppiamente farang: turisti stranieri in terra thai, e stranieri tra la stragrande maggioranza di turisti thai.  

Il Doi Inthanon, parco nazionale distante una sessantina di chilometri da Chiang Mai ed habitat naturale di svariate specie animali, offre l’opportunità di compiere una piacevole escursione giornaliera. Mediante una strada panoramica che si articola lungo la sua dorsale, la quale offre belle visuali sui circostanti campi di riso o soia terrazzati, e consente altresì ai visitatori di poter eventualmente effettuare delle soste presso alcuni piccoli villaggi tribali appartenenti alle etnie Karen ed Hmong, si raggiunge comodamente “The highest spot in Thailand”, come recita un cartello posizionato nel punto più alto della nazione, a 2565 di altezza sul livello del mare. Chi come noi è abituato soprattutto al sud di questo meraviglioso paese, fattori come la pungente temperatura che si avverte in cima alla vetta, la quale  invoglia ad indossare capi pesanti, associata ad i tanti thai imbacuccati di sana pianta, agghindati con sciarpe, piumini, guanti e cappelli, comportano ovviamente delle situazioni alquanto inconsuete. Turistica foto di rito dinnanzi al cartello, aspettando pazientemente il proprio turno in attesa che finisca una nutrita e rumorosa comitiva di thailandesi, che immortalano l’evento rispettivamente ognuno con la propria fotocamera, ed in qualsiasi posa possibile ed immaginabile, fino a quando, una ragazza del gruppo, probabilmente impietosita, fa segno indicandoci ai propri amici di farci passare: “farang farang”, ed ancora, incoraggiandoci con le mani ad avvicinarci in prossimità del cartello ripete: “farang farang”. Sì, grazie, siamo farang, è ovvio, anzi, come scritto, probabilmente anche doppiamente farang in questo anomalo contesto. Valentina è indubbiamente al centro dell’attenzione, e le richieste di poter scattare delle foto assieme a lei diventeranno prassi comune e consolidata in tutto il viaggio. Riprendendo la marcia, sostiamo anche presso i due grossi chedi fatti erigere dall’Aeronautica Reale Thailandese in onore dei sessantesimi compleanni del re e della regina, le cui rispettive punte, raggiungibili tramite due ripide gradinate, o più comodamente mediante apposite scale mobili, si stagliano nel cielo terso, tagliando quasi simbolicamente la frizzante aria di montagna. Nel parco esistono anche alcune belle cascate (nam tok in thai), che visitiamo durante la nostra discesa dalla sommità. Le Siriphum richiedono una breve passeggiata in salita per raggiungerle, ma il gettito è scarso, e con il loro doppio salto sono bensì indubbiamente più scenografiche viste da lontano. Presso le Watchiratharn, invece sicuramente più maestose e scenografiche, troviamo degli spartani posti di ristoro presi d’assalto da una miriade di thai, e ne approfittiamo a nostra volta consumando uno dei nostri piatti preferiti quale il piccante moo pat ga-prao, squisito maiale fritto con abbondante peperoncino e basilico locale, ovviamente accompagnato dall’immancabile riso, a cui facciamo seguire dell’invitante pollo che sta lentamente arrostendo su delle braci assieme a grassi pezzi di maiale e ad alcuni piccoli rettili, che dall’aspetto sembrano lucertole o gecki. Si pranza lautamente al ritmo incalzante offerto dalla colonna sonora dettata dal rumore scrosciante delle vicine cascate, su dei tavolacci e panche in legno, ed in compagnia dei numerosi thai compiaciuti ed incuriositi da noi, ma anche desiderosi di consigliarci come condire i nostri piatti con la miriade di salse presenti. Farang farang.

Sarà probabilmente a causa dei recenti disordini politici che hanno comportato per giorni la chiusura dell’aeroporto internazionale di Bangkok, ma qui, e praticamente nel proseguo di questo viaggio al nord, saremo sempre o quasi sempre gli unici farang, anzi, double farang, of course.

Le Mae Klang, posizionate in basso, quasi a ridosso dell’entrata del parco, sono altrettanto belle, sebbene non maestose come le precedenti, ma valgono indubbiamente una visita e ci meravigliamo vedendo alcune persone bagnarsi nelle gelide pozze create dal sovrastante salto. Le Mae Ya Waterfall sono distanti dalla strada principale che attraversa il Doi Inthanon, e pertanto generalmente non annoverate nei classici circuiti turistici, ma ritengo la loro visita irrinunciabile. Per raggiungerle si oltrepassano diversi campi coltivati a soia, ed alcuni piccoli villaggi rurali la cui vita dei propri abitanti sembra scorrere davvero lenta. Una volta arrivati in prossimità dei parcheggi, alzando lo sguardo si riesce ad intravederle in lontananza,  circondate e seminascoste dall’adiacente vegetazione, mentre ai lati della strada, anche qui sono presenti diversi chioschi che arrostiscono vari tipi di carne, arachidi, e dei tuberi dal sapore molto simile alle castagne. Un cartello indica che occorre camminare per settecento metri in salita al fine di raggiungerle. Il sole però sta quasi tramontando, e noi iniziamo ad avvertire anche i primi segni di stanchezza, ma niente paura, siamo in Thailandia, dove talvolta a tutto sembra esservi rimedio, tant’è che proprio all’inizio del sentiero stazionano appositamente dei baldi giovani che, dietro lauto compenso ammontante a dieci baht, poco più di venti centesimi di euro, sono pronti a trasportarci in motorino lungo i cinquecento metri iniziali. Una successiva breve passeggiata ci conduce quindi in prossimità delle Nam Tok Mae Ya, dove restiamo davvero estasiati dinnanzi alla loro innegabile bellezza. 

Lasciamo di buon mattino Chiang Mai, percorrendo la statale 107 in direzione nord.

La prima sosta della giornata viene effettuata in prossimità di Mae Malai, dove ne approfittiamo per comperare della frutta presso un mercato locale coperto, nel quale restiamo colpiti dalla nutrita presenza di vari insetti fritti esposti in bellavista su delle foglie di banano, pronti per essere venduti e riccamente consumati. Nel mercato sono presenti anche numerosi banchi che vendono rispettivamente carne, frattaglie, ortaggi, enormi sacchi di peperoncini, polvere di curry, pesci vivi ed essiccati, varie pietanze cotte, pollo fritto, numerose zuppe e quant’altro. Siamo ovviamente i soliti farang ficcanaso, quasi delle mosche bianche in questo ambito, ma non mi muoverei mai da qui.

Imbocchiamo la statale 1095 verso ovest, la quale ci condurrà dopo circa 250 chilometri a Mae Hong Son, capoluogo dell’omonima provincia, dove arriveremo in serata.

Nuovo stop alle Mork-Fa Waterfall, ubicate all’interno del Doi Suthep-Pui National Park. Il posto è carino, completamente immerso in una fitta vegetazione, e le graziose cascate sono impreziosite da un piccolo arcobaleno presente alla fine del salto lungo una trentina di metri. Dalle Mork-Fa in poi la strada mostra il suo aspetto reale, trasformandosi in una sequenza interminabile di curve e tornanti che si snodano attraverso un tipico paesaggio montano, nel quale appare comunque non di rado qualche pianta tropicale. Interminabili salite, curve a gomito, ripide discese, e poi ancora curve ed ancora curve, lungo un continuo zigzagare reso ancor più impervio dalle inevitabili code create in alcuni tratti dagli immancabili gitanti provenienti da Bangkok, che sanno ben districarsi nel traffico caotico della propria città, mentre mostrano una lentezza ed una prudenza fuori dal comune su queste strade. Una stretta diramazione sulla destra ci conduce in sette chilometri ai Geyser di Pong Duern, dove l’acqua bollente schizza poderosa nell’aria generando enormi quantità di vapore. Continuiamo quindi il nostro percorso lungo questa strada selvaggia ed a tratti panoramica, che grazie al continuo intervallarsi di tornanti, salite e discese, ricorda in determinati punti un interminabile giro in ottovolante. Lungo il tragitto s’incontrano sovente delle stradine che conducono presso alcuni villaggi appartenenti a diverse etnie, comunemente denominate “tribù di montagna”. Hanno per lo più origini seminomadi, essendosi trasferite da stati quali Cina, Laos, Tibet, Birmania, nel corso degli ultimi due secoli, ma non appartengono di fatto a nessuna nazione e continuano a mantenere tradizioni, lingua, costumi e convinzioni spirituali proprie. Conducono esistenze alquanto modeste, soprattutto se paragonate ad altre etnie thailandesi, e questo è probabilmente imputabile al mancato riconoscimento della nazionalità, sebbene il governo si sia prodigato in taluni casi per fornire loro acqua, elettricità e scuole. Vivono per lo più di agricoltura, talvolta producendo manufatti artigianali, in alcune circostanze grazie al fatto di essere a loro volta diventati delle vere e proprie attrattive turistiche, mentre nei casi dei villaggi più isolati e difficili da raggiungere, probabilmente anche grazie alla reiterata ed ancora diffusa coltivazione dell’oppio, malgrado si siano compiuti grandi sforzi per bandirlo e convincere queste popolazioni a smettere di coltivarlo. Le tribù presenti in zona appartengono alle sei principali etnie degli Akha, dei Mien o Yao, dei Karen, dei Lahu, degli Hmong e dei Lisu.

Superata la cittadina di Pai, ed otto chilometri dopo Soppong, giungiamo presso quella che rappresenta a mio avviso la più bella attrattiva della zona, la quale giustifica da sola questo stancante ed interminabile tragitto, ovvero la Tham Lod, un’enorme caverna calcarea attraversata per circa seicento metri dal fiume Lang e percorribile a bordo di alcune zattere di bambù. Sostiamo dapprima presso uno dei rustici ristorantini ubicati in prossimità dei parcheggi, come sempre letteralmente presi d’assalto dai numerosissimi turisti thai. Proviamo quest’oggi il khao sawy, tipico piatto locale consistente in noodles all’uovo conditi con dello speziato brodo di curry, a cui facciamo seguire del succulento maiale arrostito. Sufficientemente satolli, siamo dunque pronti ad ingaggiare una guida (obbligatoria) con apposita lanterna a gas, che ci condurrà a visitare la grotta a bordo di una zattera. Superato l’impatto iniziale, scivoliamo dunque lentamente nell’acqua quasi inghiottiti dall’enorme caverna, mentre l’oscurità si fa progressivamente più intensa e l’altissimo soffitto dell’ampia grotta viene scarsamente illuminato di tanto in tanto dalle torce provenienti dalle altre zattere. Insolite formazioni rocciose si alternano a svariate stalattiti e stalagmiti, che hanno assunto negli anni incredibili e bizzarre forme, mentre le strida dei numerosi rondoni e pipistrelli presenti contribuiscono a conferire al tutto un aspetto sinistro. In alcuni punti nel fiume la lunga pertica non è sufficiente a far spostare la zattera, ed il barcaiolo deve pertanto calarsi in acqua e trainarla con la forza delle proprie braccia. Lateralmente alla grotta principale si trovano altre tre grandi cavità raggiungibili tramite delle ripide scalinate, chiamate rispettivamente la Caverna della Colonna per via di una stalattite lunga circa venti metri, la Caverna delle Bambole per via dell’impressionante somiglianza di alcune stalagmiti con delle bambole, e la Caverna delle Bare, così chiamata poiché qui furono trovati i resti di una dozzina di bare in legno di teak, sospese dal terreno di circa un paio di metri grazie a dei pali in legno, alcune delle quali contenevano ancora ossa e vasellame. Queste bare, la cui datazione al carbonio ha fatto risalire ad un periodo compreso tra i 1200 ed i 2200 anni, appartengono secondo la gente del posto ai Phi Man, gli spiriti della grotta, ed occorre aggiungere che non sono state comunque rinvenute solo nella presente Tham Lod, ma anche in molte altre delle oltre duecento caverne calcaree presenti in tutto il distretto. 

Quando raggiungiamo Mae Hong Son, è ormai buio da un pezzo. La cittadina, fondata nel 1831 come campo di addestramento degli elefanti catturati nella giungla limitrofa è davvero molto piccola, e si sviluppa prevalentemente ai lati della Thanon Khunlum Prapat, la quale l’attraversa da nord a sud. Il senso di assoluta quiete che vi si respira, viene appena turbato durante le ore serali lungo le viuzze ubicate intorno al piccolo lago Nong Jong, dove si concentrano banchetti che espongono artigianato locale, ma, soprattutto, affollati chioschi alimentari. Passeggiare qui è comunque gradevole, aggirandosi spensieratamente tra le bancarelle, con lo sguardo incuriosito dalle varie mercanzie esposte, tra profumi più o meno piacevoli e, come al solito, nel ruolo ormai consolidato di double farang, mentre l’oscurità del cielo viene rischiarata dalle fiammelle dei molteplici palloncini aerostatici di carta, fatti partire con gesti propiziatori ed in segno di buon auspicio dal vicino ed illuminato Wat Jong Kham, previa piccola offerta da elargire ai monaci locali. I dintorni di Mae Hong Son ospitano numerosi villaggi Shan e Karen, principali etnie nelle quali viene annoverata la maggior parte della sua popolazione assieme ai Thai Yai, ed a cui occorre comunque sommare anche il cospicuo numero di numerosi profughi birmani aggregatisi nel corso degli ultimi anni, letteralmente spinti oltre confine dall’inasprimento oppressivo perpetrato loro dalla feroce giunta militare del paese limitrofo.

I luoghi circostanti offrono l’opportunità di effettuare delle interessanti escursioni, transitando oltretutto lungo strade da cui è possibile ammirare spettacolari scenari naturalistici. Visitiamo proprio a ridosso del confine birmano il villaggio di Mae Aw, meglio conosciuto come Ban Rak Thai, uno degli ultimi avamposti del Kuomintang cinese e teatro di duri scontri in passato tra gli stessi disertori e Khun Sa, il famigerato signore dell’oppio. La strada per raggiungerlo si inerpica lungo una serie di tornanti e transita successivamente affianco ad ampie porzioni di terreno coltivate a the e caffé, piantagioni che hanno integralmente sostituito, perlomeno ufficialmente, l’oppio. L’ufficio turistico di Mae Hong Son raccomanda di non spingersi facendo trekking nei boschi circostanti il villaggio, poiché il rischio di imbattersi in qualche narcotrafficante è comunque elevato e sovente si verificano azioni di guerriglia. Nel villaggio, costituito da poche modeste case in mattoni, ed alcune capanne in legno di bambù, spiccano i cartelli raffiguranti gli ideogrammi cinesi, ed è presente uno sparuto numero di ristoranti, i quali offrono prevalentemente la cucina tipica dello Yunnan. Sono presenti, inoltre, varie botteghe che vendono sacchetti di the, tra l’altro di buona qualità, come avremo modo di appurare, ma anche qualche piccolo emporio che vende medicina tradizionale. Per certi versi, sembra davvero di non trovarsi in Thailandia. Continuando a costeggiare le colline birmane, raggiungiamo tramite una strada strettissima ed articolata dapprima il villaggio Shan di Ban Ruam Thai, letteralmente invaso dai gitanti thai che vi hanno piantato le tende, e giungiamo successivamente alle cascate di Pha Sua, che precipitano a strapiombo nella roccia calcarea creando delle piccole pozze dove alcuni turisti locali stanno facendo il bagno. La visita al parco nazionale di Tham Pla è invece alquanto deludente, e la relativa grotta, considerata sacra e piena di carpe soro, alcune delle quali dalle notevoli dimensioni, non rappresenta francamente nulla di trascendentale. Anche qui, comunque, dividendo il desco, abbiamo modo di familiarizzare con alcune famigliole thai, e questo rappresenta ad ogni modo un aspetto positivo di questa visita.

Dalla località di Huai Deua, distante pochi chilometri da Mae Hong Son, si può partire per un elephant trekking attraverso suggestivi percorsi nella giungla limitrofa, oppure, più semplicemente, ci si può imbarcare come facciamo noi a bordo di alcune long tail, per effettuare una gita lungo il fiume Pai, fino al confine birmano. La maggior parte dei visitatori giungono fino a Mae Hong Son attratti soprattutto dai villaggi abitati dai profughi Paduang, nei quali vivono le cosiddette “donne giraffa”. La loro questione è stata spesso al centro dell’attenzione e rimane dibattuta ed assai controversa. Taluni sostengono che la visita a questi villaggi contribuisca esclusivamente a mantenere integre le tradizioni e la cultura dei Paduang, i quali possono mantenersi autonomamente grazie agli introiti derivanti dall’afflusso turistico; altri, asseriscono che queste donne continuano a perpetrare queste anacronistiche usanze che stavano progressivamente sparendo, esclusivamente in virtù del denaro, e che se fosse invece loro concesso di sostenersi tramite agricoltura od altro, come è stato permesso in altri villaggi a differenti gruppi etnici, avrebbero da tempo abbandonato l’usanza di indossare il lungo collare che gli comprime le clavicole e la cassa toracica.

Non pretendo di essere il portatore della verità, e pur rispettando le opinioni di tutti, il mio personale modo di concepire il viaggio mi dice di proseguire con la barca oltre questo villaggio simil recluso, il cui accesso ai visitatori ammonta a 300 baht. Non voglio pagare per vedere delle persone. Non voglio che delle persone vivano per farsi vedere e fotografare da me, riducendo la loro secolare cultura ad un mero fenomeno da baraccone. Saremo pertanto probabilmente tra i pochi visitatori ad esser giunti fin qui senza aver visto una sola “donna giraffa”, le cui foto abbondano negli opuscoli e nei libri fotografici di mezzo mondo, oltre ad essere sovente utilizzate anche dall’ente turistico thailandese, il quale avrà tutto l’interesse di preservare la loro cultura, nonché di far convogliare da queste parti il turismo. 

La barca arresta la sua corsa in prossimità di un ponte, aldilà del quale inizia la Birmania.

Anche qui è presente un villaggio di profughi, presso il quale sbarchiamo per una breve sosta e dove ci colpiscono immediatamente dei cartelli che indicano il pericolo di contrarre la malaria. Ci vengono incontro dei bambini, con cui Valentina inizia velocemente a familiarizzare con gesti e sorrisi spontanei. Beati i piccoli, secondo i quali non esistono confini, razze e pregiudizi. Successivamente questi bimbi vanno a prendere delle torce e ci chiedono pochi baht per accompagnarci ad esplorare una grotta limitrofa. Tenerezza a parte, apprezzo molto il loro modo di provare a guadagnare offrendo un servizio in cambio, cercando sì di vivere grazie al turismo, ma in maniera dignitosa. La grotta, che raggiungiamo con le nostre “guide” tramite una ripida scalinata ed un’ardua discesa lungo dei gradoni scavati nel terreno molle si dimostra interessante, con all’interno alcune belle stalattiti e due statue raffiguranti rispettivamente Buddha ed un Rishi Hindu, riccamente adornate da bastoncini d’incenso. Nessun opuscolo la pubblicizzerà mai, né mai figurerà tra le attrattive di Mae Hong Son, eppure la semplicità, l’entusiasmo, il sorriso, e gli occhi dolci di quei bambini possono giustificare da soli un viaggio, e costituire facilmente uno di quei tanti perché di cui ho scritto all’inizio di questo racconto.

-          Benedetto Antonucci      -