- Un viaggio Down Under -
La
partenza è fissata in un caldo pomeriggio d’agosto 2005, ma il
viaggio è in realtà iniziato quattro anni fa, quando, lasciate le
coste del Queensland, cominciammo a progettare il nostro ritorno in
Australia. Nella vita, però, si sa, spesso le cose non vanno come si
vorrebbe, o perlomeno, come intendiamo pianificarle, e di conseguenza
succede poi che, per svariati motivi su cui non mi soffermerò in questa
sede, si viaggia negli anni in altri posti del mondo, pur non
dimenticando il progetto iniziale, che resta comunque sempre vicino ai
nostri cuori. Infatti, quando con mia moglie consideravamo nuove mete in
cui peregrinare, la domanda che reciprocamente ci ponevamo,
inevitabilmente era sempre la stessa: “E l’Australia, allora?” Già,
l’Australia. L’Australia era sempre lì, dall’altra parte del
mondo, sottosopra nel planisfero, fissa nei miei pensieri, e semichiusa
a mò di puzzle nel nostro personale cassetto dei viaggi. Un puzzle a
cui ogni tanto aggiungevamo un tassello, e di cui ammiravamo compiaciuti
la progressiva realizzazione, fino al fatidico giorno del suo futuro
completamento. Intanto, mese dopo mese ricevevo con impressionante
regolarità decine di opuscoli, e confesso che era un sottile piacere
rincasare la sera, trovando nella propria buca delle lettere una busta,
il cui impresso timbro di provenienza recava nomi come Alice Springs,
Sydney, o Darwin, che mi facevano di fatto viaggiare con la fantasia. E
poi, qualcuno di voi crede alle coincidenze?
Beh, rimane indubbiamente difficile da raccontare, ma durante i
mesi scorsi, in numerose occasioni, e quasi a volermi ripetutamente
ricordare qualcosa, ho ascoltato per caso alla radio un vecchio brano
intitolato “Down under” dei Men at work, gruppo australiano in voga
negli anni ottanta, e quel gradevole ritornello mi era entrato
letteralmente nella testa, al punto tale che, durante l’arco della
giornata, canticchiavo come un matto “Do you come from a land down
under? Where
women glow and men plunder, can’t you hear, can’t you hear the
thunder, you better run, you better take cover.” Stavo
anche stavolta inizialmente pianificando un altro viaggio, in un posto
completamente diverso, ma mi accorsi che quel vecchio puzzle era ormai
terminato, che l’attrazione per l’Australia era sostanzialmente
divenuta insostenibile, e che questo, era quindi l’anno giusto per
tornare… down under. Così,
dopo aver soggiornato con immenso piacere ancora una volta a Singapore,
la terza per la precisione nel corso del nostro girovagare attorno al
mondo, in una fresca mattinata di questo inverno australe atterriamo a
Sydney, mentre deve ancora sorgere il sole. Il
nostro elegante appartamento, felicemente ubicato lungo la George
Street, principale arteria del Central Business District, è dotato di
ogni genere di confort, comprese lavastoviglie, lavatrice e lavasciuga.
Sì, decisamente un lusso. La strada sottostante inizia ad animarsi di
impiegati in giacca e cravatta, che corrono spediti a prender possesso
delle loro postazioni di lavoro, mentre noi iniziamo poco dopo a
prendere dimestichezza con le strade di Sydney, dirigendoci a piedi
verso il Circular Quay e con lo sguardo rivolto di tanto in tanto sui
grandi e luccicanti edifici sovrastanti. L’aria frizzante invoglia a
passeggiare, così giungiamo rapidamente a Macquarie Place,
fermandoci di fronte all’obelisco in arenaria sul quale furono
impresse le distanze che separavano Sydney dalle altre colonie.
L’artefice di questo monumento fu l’architetto Francis Greenway, un
nome che dice probabilmente poco, sebbene detenga un piccolo record
mondiale, come quello di esser stato l’unico falsario a comparire su
delle banconote ufficiali, in vigore fino a qualche anno fa, e possa in
un certo qual modo rappresentare la recente storia dell’Australia,
giovane nazione i cui primi abitanti furono per la maggior parte dei
forzati. Greenway giunse a Sydney come detenuto nel 1814. Circa due anni
dopo, fu nominato architetto civile da Lachlan Macquarie, governatore
dell’epoca. Progettò qualcosa come 40 edifici pubblici, e cinque anni
in seguito al suo arrivo in Australia fu graziato. Conobbe
fama e benessere, ma morì in disgrazia, sempre a causa della sua
poco edificante condotta di vita. Questa città, che sin dai primi
momenti ci sta attraendo, fu fondata nel gennaio del 1788 dal capitano
Arthur Phillip, che partì otto mesi prima dall’Inghilterra con undici
navi, le quali trasportavano tra l’altro circa 750 condannati ai
lavori forzati, che di fatto furono i suoi primi abitanti. Infatti, una
volta perdute le colonie americane a seguito della guerra
d’indipendenza, il Regno Unito perse conseguentemente anche il luogo
privilegiato in cui sfoltire le proprie sovraffollate carceri, e questa
situazione, che negli anni a seguire diventò oltremodo pesante, unita
al timore delle mire espansionistiche francesi nel Pacifico, portò gli
inglesi a maturare l’idea di istituire in via sperimentale un bagno
penale nel luogo decantato da James Cook alcuni anni prima. In realtà,
tessendo le lodi della Botany Bay, che visitò in autunno, quando le
piogge rendono solitamente il paesaggio lussureggiante, il grande
navigatore non tenne conto nel suo rapporto delle stagioni invertite,
così, nel momento in cui Phillip ed il suo carico di galeotti giunsero
nella suddetta baia in piena estate, trovarono un posto le cui
condizioni climatiche e naturali erano a dir poco avverse per fondarvi
una città. Navigarono quindi ancora verso nord, fino a scoprire uno dei
più grandi porti naturali del mondo, il quale si estende per circa
venti chilometri verso l’interno, fino alla foce del fiume Paramatta.
Era questo il luogo ideale in cui far sorgere il nuovo insediamento, che
in seguito prese il nome di Sydney, ed i cui primi abitanti furono
dunque in prevalenza dei forzati, che qui continuarono ad esser
deportati per oltre sessanta anni, come viene ben spiegato nel vicino
Museo di Sydney, che ci accingiamo a visitare. Il museo sorge proprio
sui resti dell’abitazione del governatore Phillip, fatta erigere nel
1788, ed attraverso vari oggetti, plastici e cartine, illustra la storia
della città, nonché la trasformazione dell’ambiente circostante a
cui assistettero loro malgrado gli Eora, gli abitanti originari del
luogo. Di particolare rilievo è la Cadigal Place, che mediante delle
bacheche in cui sono esposti materiali di uso quotidiano come silice ed
ocra, una bellissima canoa originale, ed altri oggetti ancora, rende
onore ai Cadigal, il clan aborigeno proprietario della terra su cui
sorge oggi il Museum of Sydney. Dal
museo al Circular Quay il passo è breve. Questo è il posto dove
presumibilmente Arthur Phillipp piantò l’union jack, fondando di
fatto Sydney e dando vita all’Australia, ma è anche il luogo dove
oggi confluiscono i ferries che collegano quotidianamente le altre
località della baia al CDB (Central Business District). Passeggiando
lungo la parte destra del grosso molo, notiamo subito la sagoma
mastodontica dell’Harbour Bridge, che spicca sull’altro lato. Le
cifre inerenti il ponte, testualmente fornite direttamente dall’Ente
turistico australiano, sono a dir poco impressionanti: “inaugurato
nel 1932, il ponte misura 1.149 metri di lunghezza, pesa 52.800 tonnellate,
è tenuto insieme da sei milioni di chiodi e ci sono voluti 272.000
litri di vernice soltanto
per il rivestimento iniziale. La manutenzione del colore è
ininterrotta. Occorrono 10 anni e 30.000 litri di vernice prima che
sia completata e possa ricominciare di nuovo”. Il punto di vista
è eccezionale, Patrizia sembra entusiasta, ed ancor più Valentina, che
detiene lei stessa una sorta di piccolo record, raggiungendo per la
seconda volta l’Australia, alla veneranda età di quattro anni e
mezzo. Dunque,
ricapitoliamo: l’entusiasmo è quello giusto, abbiamo l’imponente
mole in acciaio dell’Harbour Bridge sulla nostra sinistra, la
bellissima baia si estende immensa di fronte a noi, gli affollati
traghetti solcano le placide acque, gli scintillanti grattacieli del CBD
incorniciano la parte retrostante sfidandosi tra loro in altezza, lungo
il Circular Quay East, dove ci troviamo ora, si susseguono bar e
ristorantini, tutta la passeggiata è affollata di gabbiani, l’aria si
è riscaldata, raggiungendo gradualmente la temperatura di circa venti
gradi, ottima direi per passeggiare, ed eccellente considerando che qui
siamo in inverno. Sembra tutto perfetto, eppure manca qualcosa. Ma sì,
manca l’Opera House, che dopo aver percorso ancora qualche decina di
metri, troviamo maestosa dinnanzi a noi, convincendoci davvero che ci
troviamo a Sydney. Già, perché malgrado tutto, l’Opera House è la
vera ed indiscussa icona di questa città. Effetto mediatico e
propagandistico, grande pubblicità, oppure semplice retorica in cui sto
scadendo, mettiamola pure come vi pare, ma dopo aver a lungo agognato un
viaggio, volato per oltre diecimila miglia, aver visto apporre il timbro
australiano sul proprio passaporto, aver regolato in avanti di otto ore
le lancette dell’orologio, aver finora visitato il museo della città
e di conseguenza appreso la sua storia, aver visto il Circular Quay,
l’Harbour Bridge e la baia, l’Opera House e dico solo l’Opera
House, riesce a farmi esclamare con enfasi: “cazzo ragazzi, ce l’ho
fatta, sono a Sydney”!
Passeggiamo
quindi lungo il lato sinistro del teatro che, visto da vicino, non
sortisce certamente lo stesso effetto iconografico. Sul retro della
stesso, si gode però di una fantastica prospettiva della baia in tutta
la sua estensione e dell’Harbour Bridge, tanto che una giovane coppia
di sposi, l’ha oggi scelta come scenario per le proprie fotografie.
Luogo turistico per antonomasia e simbolo stesso della città, l’Opera
House deve la sua esistenza al genio incompreso dell’architetto
danese Jørn Utzon, il cui progetto innovativo risultò vincitore tra i
233 presentati, al fine di edificare un teatro dell’opera, nel punto
in cui sorgeva un vecchio capolinea tranviario.
La costruzione iniziò nel 1959, con un preventivo di spesa stimato
attorno ai sette milioni di dollari australiani, ma i problemi non
tardarono ad arrivare, ed Utzon
si scontrò presto con le forti polemiche legate ad un design così
azzardato che, associate a problematiche di carattere puramente tecnico,
fecero allungare di molto i tempi di realizzazione e lievitare
sensibilmente i costi. Il primo Marzo del 1966, il Sydney Morning Herald
titolò emblematicamente “Utzon Quits Opera House”. Se ne andò
dall’Australia, dove non rimise più piede. Furono assoldati degli
architetti locali per proseguire i lavori, che tuttavia continuarono ad
andare a rilento e con ulteriori aggravi di costi, tanto che, al
cospetto di Elisabetta II, il 20 ottobre 1973, data prescelta per
l’inaugurazione del teatro, lo stesso era costato circa dieci volte di
più rispetto alle stime iniziali. Jørn
Utzon, quel giorno non venne nemmeno nominato. Dopo
aver effettuato il giro completo del teatro in senso orario, giungiamo
sulla sua monumentale scalinata, dove ci sediamo in compagnia di
moltissima gente di varie nazionalità. D’accordo, sarà anche
un’icona, ed emblema turistico di Sydney per eccellenza, ma restando
spensieratamente seduti per qualche tempo sui suoi gradini, anche se non
so bene il perché, ci si può davvero sentire come dei cittadini del
mondo. Sotto di noi è ubicato l’ingresso dei Royal Botanic Gardens,
autentico polmone verde di questa parte della città, la cui superficie
complessiva ammonta a circa trenta ettari, decisamente troppi in cui
passeggiare quest’oggi, specialmente dopo che Valentina ha adocchiato
una sorta di trenino turistico, che coprirebbe l’intero percorso in
poco più di mezz’ora. Si può forse dire di no ad una bambina? Alcuni
minuti dopo, in compagnia di qualche anziano turista, un paio di altre
coppie con prole al seguito, e l’immancabile comitiva di giapponesi
con microscopiche telecamere incorporate, partiamo a bordo, iniziando a
percorrere i sentieri situati all’interno di questa specie di museo
vivente, il quale annovera decine e decine di piante diverse, tra cui
spicca un boschetto costituito da 180 specie di palme differenti, ma
anche stagni in cui nuotano anitre ed altre numerose specie di uccelli
acquatici, varie fontane ornamentali, curatissime aiuole ricche di
fiori, ed altro ancora. Il posto, occorre dirlo, è straordinario. Le
enormi distese di prati all’inglese perfettamente rasati ospitano
molti impiegati elegantemente vestiti,
del tutto intenti a consumare la loro pausa pranzo dopo aver allestito
un bel picnic, così come notiamo diverse scolaresche radunate a
semicerchio attorno all’insegnante, mentre più in là, attaccati ai
rami di alcuni grandi alberi, ci sono decine di enormi pipistrelli della
frutta, che appaiono del tutto irreali in questo contesto, specie se si
spazia con lo sguardo poco oltre, dove si stagliano imponenti gli enormi
grattacieli vetrati del Central Business District. Finito il giro
passiamo nuovamente lungo il Circular Quay, che nel frattempo si è
animato di artisti di strada, turisti, pendolari, saltimbanchi,
giocolieri, nonché alcuni aborigeni impegnati ad esibirsi con il loro
didgeridoo, i quali, con quell’aspetto da mendicanti, non mi fanno
francamente un bell’effetto, ma di questo scriverò successivamente.
Imbocchiamo in seguito il Circular Quay West e dopo aver superato il
Museo di Arte Contemporanea, raggiungiamo le Campbell’s Storehouses,
costruzioni originariamente appartenute al facoltoso mercante Robert
Campbell, un tempo impiegate come magazzini, ed oggi trasformate in
raffinati ristoranti, da cui si gode una spettacolare vista del Circular
Quay e dell’Opera House. Considerato quindi che è già ora di pranzo,
che lo stomaco a ragione si lamenta, e che io non sono certo il tipo che
si fa pregare in determinate situazioni, come non approfittarne?
Malgrado ci troviamo nella parte più turistica della città, la maggior
parte degli avventori del ristorante dove mangiamo è costituita da
australiani, che consumano pranzi di lavoro. La nostra tavola viene
imbandita da una dozzina di ostriche per cui la città è rinomata, una
bottiglia di chardonnay servito alla giusta temperatura, ed un enorme
piatto di crostacei e frutti di mare, mentre dall’altra parte del
molo, quasi a volerci ancora ricordare dove siamo, si erge magnifica
l’Opera House. Si
può forse desiderare qualcosa di più in questo momento? Nel
pomeriggio, imboccando l’adiacente George Street, lasciamo questa zona
dove torneremo nei prossimi giorni, dirigendoci sempre passeggiando alla
volta di Darling Harbour, un tempo decrepito insieme di moli in rovina,
ed ora elegante e moderno agglomerato di centri commerciali, ristoranti,
musei, grattacieli ed innumerevoli attrattive, che si susseguono lungo
entrambi lati di questa sorta di fiordo cittadino attraversato dal
Pyrmont Bridge, lungo il quale corre la famosa monorotaia, collegando
appunto Darling Harbour con il Distretto Finanziario. Va detto, il posto
è davvero bello e così ricco di attrazioni, che vi si potrebbe
tranquillamente trascorrere un’intera giornata, senza correre il
rischio di annoiarsi. Entriamo nel Sydney Aquarium, per la felicità di
Valentina che qui può osservare con meraviglia dal vivo alcuni
protagonisti di un paio dei suoi lungometraggi preferiti come Nemo e
Shark Tale, ma confesso che restiamo anche noi ammaliati dal posto, in
verità davvero interessante. Nell’acquario vivono 11.000 esemplari di
650 specie diverse, facilmente ammirabili da molto vicino in tre
oceanari, nei quali sono rappresentanti altrettanti habitat, ed il cui
top si ha senza dubbio nel tunnel trasparente lungo circa 145 metri, il
quale si snoda attraverso due vasche oceaniche. Dopo aver fatto un po’
di spesa presso un supermercato Woolworths, rincasiamo con i piedi
sostanzialmente lessi, a dimostrazione ancora una volta, che le distanze
sulle cartine possono apparire nettamente più brevi, di quanto poi
siano nella realtà. Il giorno seguente splende il sole, così, dopo aver fatto colazione nello straordinario Strand Arcade, ed aver passeggiato lungo il Pitt Street Mall, piacevole tratto pedonale ricco di negozi griffati, decidiamo di osservare la metropoli dall’alto, salendo sulla Sydney Tower, spettacolare torre dall’aspetto avveniristico alta 305 metri, la cui cima offre un grandioso panorama a 360 gradi di Sydney, che, semmai si avvertisse il bisogno di rimarcarlo, è davvero una gran bella città. Scendiamo sulla Market Street, che seguiamo fino all’Hyde Park, altro bel grande parco cittadino, che attraversiamo nel tratto iniziale, fino all’altezza della graziosa Archibald Fountain. Dietro la fontana, sulla College Street, fa bella mostra di sé la St. Mary’s Cathedral, prima chiesa cattolica sul suolo australiano. E’ davvero piacevole passeggiare a metà giornata in questo parco, autentica oasi di quiete nella City Centre, dove, con grande meraviglia, vediamo addirittura degli ibis. Uscendo dall’Hyde Park visitiamo l’Australian Museum, primo museo in Australia, fondato nel 1827, nel quale sono presenti interessanti sezioni, come il cosiddetto Pianeta dei minerali, il settore inerente la flora e fauna australiana, quello degli scheletri, ma, soprattutto, quello riguardante la cultura aborigena, a cui è dedicata una grande sala espositiva, ricca di reperti archeologici, dipinti, e vecchie foto d’epoca. Nel primo pomeriggio ci fermiamo a pranzo in un food court nella centrale Pitt Street, che troviamo pieno di impiegati della City Centre intenti a destreggiarsi tra i vari stand di Sushi Bar, Oyster Bar, Noodle Bar, Vegetarian Bar, Pasta Bar, Thai Food, Chinese Food, Vietnamese Food, e chi più ne ha, più ne metta, aggiungendo che questi centri sono assai diffusi in città, ed offrono spesso buon cibo a prezzi convenienti. Dopo aver riempito degnamente lo stomaco, che in fondo, mi sembra giusto sottolinearlo, pretende a ragione la sua parte, raggiungiamo il Queen Victoria Building, notevole edificio in stile romanico dalla cupola centrale in rame, costruito nel 1898, ed usato sino alla fine della prima guerra mondiale come mercato ortofrutticolo. Restò in stato d’abbandono durante i successivi decenni, fino ad essere restaurato agli inizi degli anni ottanta. Oggi, nei suoi tre elegantissimi piani ospita circa 200 prestigiosi negozi, oltre a diversi raffinati caffè. Lo stilista Pierre Cardin, che, beato lui, ha avuto evidentemente la fortuna di girare tutto il pianeta, ha definito il QVB il centro commerciale più bello del mondo. Se
ieri abbiamo ammirato la città dall’alto, oggi, domenica, desideriamo
farlo dalla baia, non facendo però possibilmente la classica crociera
turistica, ma raggiungendo un luogo in cui trascorrere qualche ora
assieme agli abitanti di Sydney, e così, di buon mattino, ci troviamo
già sui moli del Circular Quay. Siamo inizialmente indecisi se recarci
o meno a Manly Beach, celebre spiaggia ubicata a circa undici chilometri
di distanza, ma il tempo nuvoloso e la fresca temperatura ci permettono
di dissipare facilmente i nostri dubbi e ci spostiamo quindi al Wharf 2,
dove acquistiamo tre “zoo pass” per il Taronga Zoo, rendendo
oltremodo contenta nostra figlia. Dopo dodici minuti esatti di
navigazione giungiamo sul molo opposto, dove un autobus ci conduce
all’ingresso principale. Trascorriamo qui un po’ di tempo, in
compagnia di numerose famigliole di Sydneysiders, e confesso che, mentre
Valentina ci fa sorridere socializzando con un ripetuto “what’s your
name?”, abbiamo modo di apprezzare i grossi spazi aperti in cui sono
tenuti i vari animali, con un occhio di riguardo nei confronti della
fauna locale, come canguri e wallabies. Mentre nel frattempo il cielo si
è completamente aperto, la discesa con la funivia verso il molo,
preannuncia in anticipo lo spettacolo di cui godremo durante la
navigazione di ritorno, ovvero quello davvero sensazionale dello skyline
di Sydney visto dal mare, autentica meraviglia, assolutamente da non
perdere ! Una volta tornati sul Circular Quay, raggiungiamo facilmente a
piedi The Rocks, primo insediamento europeo in Australia, sorto sullo
sperone roccioso che divide Sydney Cove da Walsh Bay. Osservando gli
splendidi edifici d’epoca del quartiere, quest’oggi a forte
vocazione turistica, si riesce con un pizzico di fantasia quasi a
percepire gli echi di un passato nemmeno tanto remoto, quando, agli
inizi del 1800, Sydney era uno dei porti più malfamati del Pacifico, le
strade di The Rocks erano infestate dai larrikins, criminali della
peggior specie, le sue bettole popolate da balenieri, prostitute,
malfattori, e la moneta di scambio maggiormente in voga era il rum del
Bengala, i cui traffici erano controllati dai Rum Corps, una potente e
spietata mafia militare. Un quadro certamente idilliaco, occorre dirlo.
L’Inghilterra pensò di mettere le cose a posto nominando governatore
nientemeno che William Blight, sì, proprio lui, quello del Bounty, che
si mise subito rigidamente contro i Rum Corps, ed andò quindi presto
incontro al suo secondo ammutinamento in carriera, che lasciò di fatto
Sydney in mano ai militari per due anni, fino a quando Lachlan Macquarie,
il nuovo governatore non riuscì a ristabilire l’ordine. Agli inizi
del ‘900 interi edifici dei Rocks furono demoliti a seguito di
un’epidemia di peste bubbonica, così come altri dovettero cedere il
passo alla costruzione dell’Harbour Bridge. Nei primi anni ’70 si
pensò addirittura di radere al suolo ciò che restava dello storico
quartiere, al fine di realizzare nuovi grattacieli da adibire ad uffici,
ma una ferrea opposizione impedì tale progetto, favorendone in seguito
la ristrutturazione e la rinascita. Ci rechiamo al numero 18 di Argyle
Street, dove troviamo la Löwenbräu Keller, birreria bavarese
caldamente consigliataci in Italia dall’amico Corrado, in cui
trascorriamo dei piacevoli momenti deliziandoci il palato con un
gigantesco Schlachtplatte, squisito piatto della casa costituito
da diverse specialità bavaresi, che innaffiamo con una, ma sì, diciamo
anche due discrete Löwenbräu
Dunkel. Anche qui, la maggior parte degli avventori è costituita dagli
impiegati del vicino CBD,
che evidentemente sanno ben godersi la propria pausa pranzo. Nel tardo
pomeriggio, satolli come non mai, passeggiamo tra le oltre 150
bancarelle che animano nel week-end i Rocks, proprio quando sta
imbrunendo ed inizia prontamente a rinfrescare, grazie anche ad un
deciso vento che soffia incessantemente, mentre gruppi dal vivo animano
gli interni dei pub circostanti, da cui fuoriescono musica, grida e
risate. In serata torniamo ancora una volta nei paraggi dell’Opera
House, sorseggiando un bicchiere di eccellente Penfolds Bin 707 presso
un bar locale, allietati dal tepore prodotto dalle stufe danesi,
felicemente posizionate lungo i tavolini ubicati all’aperto. E’ la
nostra ultima sera a Sydney, città che sembra magistralmente assorbire
con naturalezza le circa quattro milioni di persone che la popolano,
città in cui si fondono con estrema disinvoltura eleganza ed informalità,
città cosmopolita, raffinata, moderna e vivace, città come poche altre
al mondo, che meriterebbe senza dubbio una visita più approfondita e da
cui non vorrei già separarmi. Così, mentre il nostro viaggio deve però
inevitabilmente proseguire e domani atterreremo nel Red Centre, ora
alziamo in alto i bicchieri, guardando dapprima la magia prodotta
dalle mille luci dell’Harbour Bridge, ed in seguito soffermando
lo sguardo sul profilo illuminato dell’Opera House. Brindiamo. Sì,
brindiamo in onore del bistrattato architetto Utzon,
perché va detto, senza di lui Sydney non sarebbe mai stata la stessa
Sydney e questo, possibilmente, non dimentichiamolo mai. La
terra è rossa. Appena
mezz’ora di volo, ed il paesaggio sottostante cambia radicalmente.
L’aereo sorvola immense distese desertiche, che variano cromaticamente
dall’arancio all’ocra. Tre ore circa dopo il decollo, atterriamo al
piccolo Connellan Airport, ma dai finestrini avevo già chiaramente
intravisto il mito. Sì, perché se abbiamo definito l’Opera House
quale icona di Sydney per eccellenza, Ayers Rock, o meglio, Uluru, è
presumibilmente il simbolo stesso dell’Australia, ed in vita mia, già
a partire dai primi libri di scuola, avrò visto la sua imponente sagoma
raffigurata migliaia di volte. Patrizia
e Valentina si occupano del ritiro dei bagagli, mentre io mi dirigo
verso il banco della Trhifty, dove però non trovo nessuno. Un cartello
scritto a penna indica di telefonare per contattare un operatore, e così
mi ritrovo a parlare con una certa Gwendy, la quale mi dice che in
cinque minuti al massimo sarà da me. Poco dopo, mi si presentano
infatti due immense e statuarie gambe parzialmente coperte da un
minuscolo pantaloncino in jeans, ed un prototipo della Barbie moderna
dagli occhi di giada mi saluta energicamente con un sorriso sfolgorante,
controlla la mia prenotazione e stampa il relativo contratto di
noleggio. Spiegandomene il significato, mi indica ogni volta i vari
punti in cui apporre la firma, dicendo “OK?” e sorridendo con i suoi
cinquecentomila bianchissimi denti. Firmo il contratto, ma lo confesso,
in questo momento potrei anche firmare una cambiale senza
accorgermene… che Dio benedica l’Australia e le sue splendide
creature! La
nostra auto si trova proprio fuori l’uscita, ed il seggiolino per
Valentina è in terra, capovolto, come buttato lì per caso. Mentre
sistemo i bagagli, mi prude costantemente il viso. Poso un borsone, mi
gratto, ma continua a prudermi, introduco una valigia, mi gratto, ma
niente, che palle ragazzi, avverto sempre più fastidio. Scoprirò
presto che non si trattava di prurito, quanto di un paio delle migliaia
di onnipresenti, fastidiose ed appiccicosissime mosche, che
caratterizzeranno il nostro viaggio nel Northern Territory australiano.
Finalmente siamo però a bordo, direzione Yulara, dove prendiamo
rapidamente possesso della nostra camera, smaniosi di dirigerci alla
volta del grandioso monolito, distante una ventina di chilometri. Uluru
si materializza improvvisamente sulla strada, delineandosi sempre più
nitidamente dopo la Park Entry Station, dove sborsiamo 25 dollari
australiani a testa, per un permesso valido tre giorni. La nostra prima
tappa è il Cultural Centre, la cui particolare forma è ispirata nelle
linee a Kuniya e Liru, i due serpenti ancestrali della mitologia Anangu. Qui, per volontà dei legittimi proprietari, vige il divieto
assoluto di fotografare. Dal 1985 il parco nazionale di Uluru – Kata
Tjuta è stato restituito dal governo australiano agli originali
possessori, gli Anangu, pur mantenendone la gestione per 99 anni. Il
centro culturale fornisce ai visitatori varie informazioni sulla cultura
Anangu e, tramite delle fotografie, numerosi pannelli audiovisivi,
esposizioni scritte in più lingue e video, i viaggiatori vengono
introdotti ai principi fondamentali della Tjukurpa,
di cui riporto di seguito testualmente alcuni passi esposti, al fine di
rendere parzialmente un’idea sui contenuti della stessa, nonché sul
grande significato religioso che gli Anangu attribuiscono ad Uluru: “La
legge Tjukurpa costituisce il fondamento della cultura Anangu. Essa
stabilisce le regole per il comportamento e il vivere comune. E’ la
legge che impone il rispetto tra le persone e tra queste e la terra che
dà sostentamento alla gente. La legge Tjukurpa, che risale all’epoca
della creazione, continua a disciplinare i rapporti al giorno d’oggi.
La legge Tjukurpa regola i rapporti tra persone, piante, animali e le
caratteristiche fisiche della terra. La stessa legge offre spiegazioni
sulla formazione, sul significato e sulla conservazione di tali
rapporti. La legge Tjukurpa è stata tradotta come “Dreaming” o “Dreamtime”,
ossia come “Tempo dei sogni”. Tale traduzione però è invero
inesatta, poiché la Tjukurpa non si riferisce ai sogni secondo il
significato tradizionale della cultura occidentale; non si tratta di un
fenomeno irreale o immaginario. La Tjukurpa è la legge tradizionale che
spiega l’esistenza e disciplina la vita quotidiana. La Tjukurpa
racchiude in sé stessa il concetto dell’esistenza, nel passato, il
presente e il futuro. La
Tjukurpa dà una risposta a importanti quesiti quali la creazione del
mondo e il modo in cui gli esseri umani e tutti quelli viventi si
inquadrano nel concetto globale della vita. Essa forma la base di tutte
le leggi che governano la natura e tutti gli esseri viventi. La Tjukurpa
è tutta attorno a noi nel paesaggio stesso. Quando gli Anangu osservano
la terra, e ogni sua caratteristica, e tutte le sue creature, essi
vedono i segni della presenza vivente degli antenati. Uluru e le sue
molte caratteristiche, continuano a raccontarci della Tjukurpa. In
principio, il mondo era privo di forma e fisionomia. Esseri atavici
emersero da questo vuoto e viaggiarono in lungo e in largo, creando
tutte le specie viventi e le caratteristiche del paesaggio desertico che
vediamo oggigiorno. Uluru e Kata Tjuta offrono una prova fisica delle
attività e dei viaggi degli esseri atavici che vengono tramandati sin
da allora, nella storia, canti, danze e cerimoniali. La conoscenza del
modo in cui prendersi cura della terra, animali piante e genti è stata
tramandata da generazione a generazione sotto forma di Tjukurpa, la
legge, cioè, degli Anangu. Uluru e Kata Tjuta fanno parte di una grande
rete di luoghi importanti, collegati l’uno con l’altro da iwara
(sentieri), formati da diversi antenati durante i loro viaggi. In tutte
le direzioni, Uluru e Kata Tjuta sono collegati con persone e luoghi. Le
pianure di sabbia e le zone boscose del parco e oltre sono piene di
segni dei viaggi degli antenati.” Il
posto suscita grandissimo rispetto, ed è quasi d’obbligo girare tra
le sue stanze nel silenzio più assoluto, in una sorta di raccoglimento
spirituale e con una conseguente contemplazione sul significato di
quanto si sta apprendendo. Percepisco però nello stesso tempo anche un
senso di vuoto, dovuto più che altro alla mancanza fisica degli
aborigeni nel loro centro culturale, presieduto invece dagli
onnipresenti rangers australiani. Sì, perché malgrado sia scritto un
po’ ovunque che gli Anangu collaborano strettamente con l’ANCA (Australian
Nature Conservation Agency) per amministrare Uluru, va anche detto che,
pur trovandosi di fatto in territorio aborigeno, nel parco, il
visitatore entra poco in contatto con gli Anangu, a meno che non
partecipi alle loro escursioni, comunque sempre parzialmente gestite da
bianchi australiani, che si occupano per loro conto delle prenotazioni
presso gli uffici dell’Ayers Rock Resort, e dei trasporti. Sarà forse
un caso, ma durante l’arco della nostra visita, nel parco stesso non
incontreremo nessun ranger aborigeno, come invece si verificherà tra
qualche giorno in altri parchi nazionali del Top End. Insomma, questa
netta prevalenza di bianchi australiani, secondo me stona con la
sacralità del luogo in cui ci troviamo, e questi 99 anni di gestione mi
appaiono altresì molto come 99 anni di ulteriore sfruttamento, ora,
soprattutto anche dell’immagine. Dopo
un paio d’ore ben spese nel Cultural Centre, raggiungiamo il
parcheggio del Mutitjulu
Walk, teatro di un’epica battaglia tra i sopraccitati Kuniya e Liru,
ed iniziamo la nostra passeggiata lunga circa un chilometro alla base
del monolito, che da vicino presenta una configurazione molto
particolare, essendo la sua forma notevolmente diversificata, costituita
da varie montagnole che si intersecano tra loro, rocce frastagliate che
si alternano a profili tondeggianti, anfratti, speroni rocciosi più o
meno aguzzi, piccole caverne disseminate in ordine sparso, e poi, ancora
tratti in cui la vegetazione cresce anche sulla parte inferiore della
roccia, altri in cui invece
si avvicendano alberi a spoglie porzioni di terreno rosso, dove trovano
spazio unicamente piccole steppe sparse di spinifex. Tutt’intorno
regna un silenzio irreale, interrotto unicamente dal rumore del vento.
Il sentiero termina presso il Mutitjulu
Waterhole, stagno permanente alla base del monolito, secondo le cui
leggende rappresenta la casa di Wanampi, un serpente d’acqua
ancestrale. Ci troviamo per un po’ in completa solitudine, immersi
nella magia di questo posto davvero unico. Proseguiamo in seguito lungo
una parte del sentiero di circa nove chilometri, che compie il periplo
del monolito, dopodiché torniamo indietro, avviandoci verso il
parcheggio, senza poter fare a meno di constatare il continuo cambio di
colori a cui è soggetto Uluru, grazie anche all’alternarsi di zone
ombrose, ad altre illuminate dal sole. Una mezz’ora prima del
tramonto, siamo posteggiati sull’apposito lookout in compagnia di
numerosi altri visitatori, comunque per la maggior parte australiani, ed
è simpatico vederli dapprima apparecchiare i propri tavolini pieghevoli
in direzione del monolito, quindi tirar fuori scintillanti calici e
relative bottiglie di vino, in questo angolo di deserto rosso. Ma
l’attenzione è ovviamente tutta dedicata ad Uluru, che muta
continuamente colore, fino quasi ad infiammarsi di rosso,
suscitando varie esclamazioni di stupore da parte dei tanti visitatori
presenti. Lo
si percepisce, è giustamente un luogo sacro, e dovrebbe esserlo per
tutti. Il
giorno successivo, sotto un sole splendente torniamo ancora al monolito,
posteggiando la macchina presso il parcheggio del Mala Walk. Iniziamo
dunque la nostra passeggiata, non potendo però fare a meno di
soffermarci qualche istante dinnanzi al triste spettacolo, a cui loro
malgrado assistono i nostri occhi. Ho sempre pensato che tra tutti gli
esseri viventi, l’uomo sia il peggiore e vedere quest’oggi scalare
Uluru da parte di numerosi visitatori, non può sfortunatamente che
confermare il mio triste pensiero. Non ha senso venire in questo angolo
desertico del centro Australia per visitare Uluru, e poi scalarlo. No,
non ha alcun senso. Non ha senso compiere una piccola impresa di cui
vantarsi, calpestando contestualmente il credo religioso di un popolo,
già oltretutto vilipeso da anni di ingiustizie. E se ho spesso letto di
pseudo viaggiatori che dopo la scalata hanno successivamente recitato il
mea culpa, dicendo che non erano assurdamente a conoscenza della
sacralità del luogo, oggi, capisco invece che hanno sempre mentito, al
fine unico di giustificare il proprio egoismo, poiché, posizionato
giusto all’inizio del sentiero che conduce in cima, un cartello
scritto in varie lingue, tra cui l’italiano, recita testualmente:
“Stai salendo su di un sito molto importante…. Non dovresti salirci.
Salirci non rivela la vera importanza del sito. La cosa più importante
è ascoltare tutto attorno… Questa è la cosa giusta da fare. Questa
è la maniera giusta: non salire in cima.” Lo stesso cartello, poi,
incita i viaggiatori a non rischiare la propria vita tentando la
scalata. Già, perché oltretutto, ogni anno qualche visitatore muore
colpito da infarto, od a seguito di qualche accidentale caduta. Tempo
addietro erano state anche piantate delle croci per commemorare le
vittime, ma furono successivamente tolte, perché se dicevamo che
l’uomo è il peggiore tra tutti gli esseri viventi, probabilmente il
turista incarna la peggior specie tra gli uomini. Infatti, prima di
iniziare la scalata su Uluru, molti amavano addirittura farsi
fotografare davanti alle croci… e perdonatemi davvero se a questo
punto, non me la sento di aggiungere altro in merito. Il
nostro percorso è estremamente piacevole e si snoda attraverso scenari
naturali di incredibile bellezza, in cui la roccia del monolito,
quest’oggi di un inverosimile arancione acceso, contrasta nettamente
con il verde della vegetazione circostante, ed il cielo terso. Il Mala
Walk è lungo due chilometri, ed offre al visitatore diversi punti
interessanti in cui soffermarsi, come ad esempio delle pregevoli
gallerie d’arte rupestre. Lungo il tragitto sono disseminate varie
zone sacre in cui è vietato entrare, così come, in differenti aeree,
vige anche il divieto di fotografare. Il nome Mala indica l’Hare-Wallaby,
un piccolo marsupiale ritenuto sacro dagli aborigeni locali, e questo
sentiero si dirama appunto attraverso alcuni luoghi un tempo abitati dai
Mala, dove, secondo le leggende Anangu, è possibile ammirare i segni
della creazione da parte di questi esseri ancestrali. Avvicinandosi al
Kantju Waterhole, troviamo una splendida panchina in legno intarsiato,
su cui ci soffermiamo un po’ di tempo, godendo di un’incredibile
quiete. Considerata l’importanza religiosa del punto in cui ci
troviamo, su esplicita richiesta degli Anangu, che per anni hanno
effettuato questo percorso per raccogliere l’acqua dalla vicina pozza
naturale, bisognerebbe rimanere in assoluto silenzio, ascoltando
unicamente il rumore del vento che bisbiglia attraverso gli alberi. Mi
colpisce particolarmente una frase, in cui si sostiene che il visitatore
è privilegiato a trovarsi in questo posto, e pertanto gli si raccomanda
di camminare in silenzio, rispettando la sacralità del luogo. Osservo
la roccia di Uluru attraverso gli alberi, poi guardo Valentina e
Patrizia e respiro a pieni polmoni il vento a cui vorrei urlare la mia
gioia e la mia commozione. Sì,
lo ammetto, a volte mi considero un privilegiato. Nel
pomeriggio abbiamo un primo assaggio di vero outback, coprendo i 50
chilometri che ci separano dai Kata Tjuta (molte teste), che vediamo
dapprima dall’apposito lookout ubicato lungo la strada, dove si riesce
ad avere un’ottima visione in lontananza delle 36 massicce cupole in
arenaria, chiamate Olgas nella seconda metà del diciannovesimo secolo
dall’esploratore Ernest Giles, in onore della regina Olga di
Wurttemburg. Sembra quasi superfluo sottolinearlo, ma il posto è
altamente spettacolare e mentre ci avviciniamo al parcheggio, dal cielo
parzialmente coperto fuoriescono dei caldi raggi di sole che fanno
incredibilmente brillare le rocce, che Giles descrisse nel suo rapporto
come dei “minareti arrotondati, cupole giganti e a volte mostruose”.
Valentina
inizia a dare segni di stanchezza, e tralasciamo dunque l’impegnativa
“Valley of the Winds”, un percorso lungo 7,4 chilometri, a favore
del Walpa Gorge Walk, sentiero che si snoda per oltre due chilometri e
mezzo attraverso una stretta gola dalle alte pareti, che sembrano quasi
divertirsi a cambiar colore man mano che andiamo avanti, fino a
raggiungere una pozza d’acqua parzialmente prosciugata. Purtroppo il
cielo nuvoloso ci impedisce di assistere allo spettacolo del tramonto
infuocato sui Kata Tjuta, e mentre percorriamo i 50 chilometri a ritroso
verso l’Ayers Rock Resort, improvvisamente cala il buio. Domani lasceremo Uluru, questo posto così importante dal punto di vista religioso per le comunità locali, e da occidentale mi rendo conto di non esser riuscito a percepire pienamente la sua grande sacralità, né tanto meno di averlo descritto in queste righe come avrei voluto, perché credo che solo vedendolo di persona, osservandone il continuo mutamento cromatico che lo contraddistingue, visitando il Cultural Centre degli Anangu, leggendo sul posto qualcosa sulla Tjukurpa, e percorrendo alla sua base i sentieri in terra battuta intrisi di leggende, ed abitati da personaggi ancestrali, si potrà forse capire cos’è realmente Uluru. Forse. Cifre,
e sono davvero incredibili quelle fornite dall’Ente Turistico del
Northern Territory, che riporto testualmente: Un
terzo della popolazione del Northern Territory è di origine aborigena. Il
Northern Territory è per il 95% di proprietà degli aborigeni. Tutti
possono visitare le zone più conosciute, ma per alcune località e
regioni può essere necessario un permesso. Nel
Northern Territory ci sono ben 21 parchi nazionali. Nel
Northern Territory vivono circa 400 specie di uccelli, 150 specie di
mammiferi, 300 specie di rettili, 50 specie di rane, 60 specie di pesci
d’acqua dolce e diverse centinaia di specie di pesci marini. Alcuni di
questi uccelli ed animali vivono esclusivamente nel Northern Territory,
principalmente ad Arnhem Land e nella zona di Kakadu. Il
Northern Territory si estende per circa 1.364.000 chilometri quadrati,
vale a dire circa un sesto dell’Australia intera, e la sua popolazione
conta appena 200.000 abitanti. Il
Northern Territory è grande quasi quanto Italia, Francia e Spagna messe
insieme. Mentre
nel Northern Territory mi accingo a percorrere il primo dei 450
chilometri circa che separano Yulara da Alice Springs, confesso di non
essermi mai sentito così piccolo in vita mia. Una
vecchia pubblicità dell’Australia diceva che è difficile dare una
definizione di “outback”, ma una volta che vi si troverà nel mezzo,
il viaggiatore potrà facilmente coglierne il significato. Dopo aver
guidato per oltre un’ora senza aver incrociato una macchina, lungo uno
strada che si perde perennemente all’orizzonte, la quale attraversa
immense distese di rossicci territori desertici in cui
abbiamo intravisto appena un paio di canguri ed un dingo
aggirarsi spauriti tra radi cespugli di spinifex, credo di aver intuito
il senso di tale termine, ed il Northern Territory è probabilmente la
patria dell’outback per antonomasia, tanto che, sulle targhe delle
proprie automobili, è riportata in rosso proprio l’emblematica
scritta “Northern Territory Outback Australia”. La
Lasseter Highway è un cimitero. Sì, un cimitero di 244 chilometri,
lungo il quale si susseguono ripetutamente carcasse più o meno grandi
di canguri investiti, e pneumatici squartati che hanno pesantemente
pagato dazio all’outback, mentre il Monte Conner, che si staglia
improvvisamente sulla nostra destra, sembra vagamente Uluru, sebbene il
suo profilo sia più squadrato e rammenta geometricamente un enorme
trapezio con la base piantata nel bush. Tre ore circa dopo aver lasciato
l’Ayers Rock Resort, all’altezza di Erldunda imbocchiamo in
direzione Alice Springs la mitica Stuart Highway, strada che attraversa
l’Australia da Adelaide a Darwin, ed il cui nome rende onore
all’esploratore scozzese John McDouall Stuart, che riuscì nella
storica impresa di aprire questo passaggio da sud a nord. Lungo il
percorso intravediamo dei dromedari,
che di fatto discordano in questo contesto paesaggistico, dove invece ti
aspetti da un momento all’altro che un canguro ti tagli la strada,
malgrado occorra dire che l’Australia sia l’unico paese al mondo
dove i dromedari vivano attualmente allo stato brado. Furono infatti
usati per trasportare materiali durante la costruzione della ferrovia
che copriva il tratto da Adelaide ad Alice Springs, ma una volta
terminati i lavori vennero lasciati liberi. Oggi, le stime parlano di
circa centomila esemplari… Poco
dopo le tredici entriamo ad Alice Springs, la più grossa città del
Central Australia, sempre ovviamente se possiamo definire città un
agglomerato di basse case in cui vivono poco più di venticinquemila
persone, ed una griglia di poche strade parallele in mezzo ai MacDonnel
Ranges. Originariamente,
era solo una delle dodici stazioni presenti lungo il territorio
australiano della linea telegrafica che, in partenza da Darwin,
manteneva in contatto il paese con il resto del mondo tramite un cavo
sottomarino, che arrivava a Giava. La stazione sorgeva presso un fiume a
cui fu dato il nome di Todd, che all’epoca era il sovrintendente dei
telegrafi, mentre le vicine sorgenti, appunto “springs”, presero il
nome di sua moglie, Alice. Alice Springs, come venne in seguito
chiamata, si è sviluppata solo nella seconda metà dello scorso secolo,
tanto che, negli anni ’50, la sua popolazione era stimata appena
attorno al migliaio di abitanti. Oggi è un importante tappa in cui
fermarsi mentre si viaggia lungo la Stuart Highway, e presenta alcune
attrattive degne di interesse, tra cui proprio la vecchia stazione del
telegrafo, ma anche la sede del “Royal Flying Doctor Service”, che
fornisce cure mediche “volanti” nelle aree remote del territorio,
nonché inoltre la prima “Scuola dell’aria” nata in Australia, in
cui si svolgono lezioni via radio per quei bambini che abitano nelle
distanti fattorie dell’outback, od in altri luoghi solitari, dove non
sorgono scuole. Dopo esserci sistemati in un motel ubicato vicino al
Todd Mall, passeggiamo un po’ lungo il medesimo tratto pedonale,
accomodandoci successivamente ad un tavolo all’aperto di uno dei tanti
locali che lo occupano. Come avevamo notato sin dal nostro ingresso in
città, ad Alice Springs la presenza degli aborigeni è rimarchevole,
così come saltano subito agli occhi le disagevoli condizioni in cui
vivono. Vediamo passare intere famiglie vestite di miseri cenci, con i
bambini scalzi ed il moccolo al naso. Altri camminano senza una meta
apparente, come tanti zombie, e con lo sguardo perso nel vuoto, mentre
altri ancora sono palesemente ubriachi, e badate che non sto scrivendo
di qualche caso isolato, ma di tante persone, sfortunatamente troppe,
che non avrei mai voluto vedere ridotte in questo stato. Quello che però
più mi colpisce, è la netta separazione tra bianchi ed aborigeni, che
sembrano vivere in due mondi paralleli nella stessa città, ignorandosi
reciprocamente. Nei vari negozi non ci sono commessi di origine
aborigena, in banca non ci sono cassieri aborigeni, così come nei
supermercati, nelle reception degli alberghi, presso le compagnie di
autonoleggio, nelle gallerie d’arte. Loro sembrano non far parte della
vita quotidiana di Alice Springs, eppure sono qui, vivono e circolano a
decine sulle strade di questa cittadina dell’Australia Centrale.
Quattro anni fa, lasciando il Queensland annotai sul mio diario:
“Parto dall’Australia con il grande desiderio di tornarci, ma,
nonostante le innumerevoli bellezze viste, lascio questo paese con
l’amaro in bocca e con un sottile velo di tristezza, dovuto ad alcune
infelici impressioni ricavate dal punto di vista sociale”. Oggi, a
distanza di quattro anni, seduto ad un tavolo nel bel mezzo della stessa
Australia, percepisco purtroppo quelle medesime impressioni, e le
avverto ancor più negative, tanto che mi fanno star davvero male, perché
rappresentano una grossa stonatura in un paese che sto sempre più
amando. Stonatura, o meglio ancora ingiustizia, che non comprendo, né
tanto meno accetto, e mi tornano in mente tutti quei dati
raccapriccianti che all’epoca avevo raccolto e scritto circa gli
originari abitanti dell’Australia, che solo nel recente 1967 hanno
ottenuto la cittadinanza, nonché diritti civili e di voto. Mi vengono
in mente quelle spaventose statistiche, che dicono che le speranze di
vita di un aborigeno sono di circa 20 anni inferiori rispetto agli
altri. Quelle statistiche che dicono ancora che il 90% di loro è
analfabeta, ed il 90% dei carcerati australiani è nero, che le mortalità
infantili sono largamente diffuse tra gli aborigeni e praticamente
inesistenti tra gli alti abitanti, che le loro malattie, prevalentemente
dovute ad un’errata alimentazione e, soprattutto all’alcol, sono
praticamente infinite, così come non posso far a meno di pensare che
l’Australia è il solo paese sviluppato a trovarsi ai primi posti nel
mondo per l’incidenza del tracoma, malattia infettiva che porta alla
perforazione della cornea ed alla conseguente cecità, tracoma che, è
inutile dirlo, è diffuso quasi esclusivamente tra gli aborigeni.
D’accordo, non tutti gli aborigeni vivono così, fortunatamente alcuni
abitano in zone remote, al di fuori delle comuni rotte turistiche e
lontano anche dagli stessi bianchi australiani, conducendo una vita più
o meno simile a quella dei loro antenati, altri hanno provato ad
organizzarsi promulgando la loro cultura, facendo udire la propria voce,
producendo e vendendo pregevoli oggetti d’artigianato, tuttavia in
molti, purtroppo davvero troppi, sono ancora toccati da vicino da quelle
spaventose statistiche, e questa palese separazione razziale, che
risulta così evidente nelle cittadine dove fanno parte integrante del
tessuto sociale, come appunto Alice Springs o la stessa Katherine a
nord, in cui ci recheremo tra qualche giorno, rende ancor più
incomprensibile quell’atroce e cinico “esperimento sociale”
effettuato tra il 1918 ed il 1970 dai vari governi australiani, noto con
il nome di “Stolen Generation”, la generazione rubata. Un numero
stimabile attorno ai 100.000 bambini vennero sottratti con la forza alle
proprie famiglie, inviati in centri di assistenza statali, o dati in
affidamento a nuclei familiari distanti centinaia di chilometri dalle
proprie case. Lo scopo era quello di far integrare questi bambini nella
cosiddetta “civiltà”, allontanandoli dalla povertà e dalle
situazioni di disagio, a cui sarebbero inevitabilmente andati incontro,
crescendo da…aborigeni. Nella maggior parte dei casi quei bambini
ricevettero un’istruzione sommaria, oltre a vari maltrattamenti fisici
e psicologici, che spesso li indussero a fuggire provando a trovare la
via di casa, a sfociare nell’alcolismo, od a tentare il suicidio. Si
tratta di un’orribile e vergognosa macchia nella recentissima storia
australiana e nella stessa storia dell’umanità. Quest’oggi,
nelle numerose gallerie d’arte di Alice Springs, alcune tele aborigene
vengono vendute anche per diverse decine di migliaia di dollari
australiani. Qualche facoltoso turista le acquisterà, arredando con una
vera opera d’arte la propria casa, che gli ricorderà per sempre
l’Australia, sì, perché, bellezze naturalistiche a parte, la cultura
aborigena rappresenta l’altra grande attrazione di questo immenso ed
affascinante paese. Fuori dagli stessi negozi, lungo la strada, decine
di bambini aborigeni vestiti con pochi sporchi abiti consunti, camminano
e continueranno invece a camminare scalzi alla ricerca di un futuro
diverso, che probabilmente non avranno mai. Il
Top End ci accoglie con un gran sole e con temperature decisamente più
consone alla nostra estate. Finalmente, aggiungerei con un pizzico di
sincerità. Il tragitto che va dall’aeroporto al centro di Darwin è
un continuo susseguirsi di autoconcessionari, ne contiamo a decine, e
questo ci sembra quantomeno strano, considerata la scarsa popolazione
del Northern Territory. Ci immergiamo subito nelle centrali Mitchell e
Smith Street, le quali mi ricordano molto Cairns per i tanti negozi
rivolti fondamentalmente ai turisti, ma anche per i molti ostelli e
l’avvicendarsi degli innumerevoli internet point. In giro c’è
pochissima gente, ed una plausibile spiegazione comunque esiste,
considerato che siamo nel tardo pomeriggio e che oggi è giovedì,
giorno in cui tradizionalmente si tiene il Mindil Beach Sunset Market, che raggiungiamo subito dopo,
stentando non poco a trovar posto nell’affollatissimo parcheggio. Sì,
perché questo animato mercato è un’autentica istituzione per gli
abitanti di Darwin, che si ritrovano numerosi in spiaggia il giovedì e
la domenica pomeriggio durante la stagione secca, ad ammirare un
tramonto infuocato. Portano da casa i propri tavolini e sdraie
pieghevoli, accomodandosi in attesa che il sole si addormenti nel mare e
consumando contestualmente qualche buon piatto acquistato in una delle
sessanta bancarelle di cibo presenti, che svariano dalle innumerevoli
pietanze asiatiche che spargono nell’aria densi profumi d’oriente,
alla pizza, dalle ostriche alle esotiche carni locali grigliate, come
coccodrillo, emu o canguro. Oltre alle bancarelle gastronomiche, nel
viale ubicato sotto le palme ce ne sono altre duecento circa, che
vendono oggetti d’artigianato, bigiotteria, libri, cappelli, e molto
altro ancora. Nonostante la ressa, è davvero ammirevole la tranquillità
di queste persone. Qui ognuno ha il suo bel piatto di noodles, una birra
ghiacciata, un tramonto tropicale da ammirare con palese soddisfazione,
e si ritrova visibilmente in pace con il mondo intero. Il
giorno seguente lasciamo Darwin, che ritroveremo tra una settimana, ed
alle otto in punto siamo già sulla Stuart Highway. Dodici minuti dopo,
alla mia macchina verrà scattata una simpatica fotografia, ed in Italia
riceverò una bella cartolina ricordo da parte del dipartimento di
giustizia del Northern Territory, in cui mi inviteranno a pagare cento
dollari australiani, per aver superato di quindici chilometri orari il
limite di velocità. Nulla da eccepire, purtroppo. In breve lasciamo
questa strada, quest’oggi parzialmente intasata dai road trains,
giganteschi camion a cui sono attaccati svariati dogs, letteralmente
cani, e di fatto rimorchi, che fanno raggiungere a questi treni della
strada anche lunghezze vicine ai cinquanta metri. Imbocchiamo l’Arnhem
Highway, strada che, in grosso modo 260 chilometri, ci condurrà a
Jabiru, nel Kakadu National Park. Se l’arteria che attraversa il paese
da nord a sud era abbastanza trafficata, quest’ultima è
sostanzialmente deserta, eccezion fatta per qualche wallabies, che
durante il tragitto si diverte a saltellarci vicino in svariate
occasioni, con relativa nostra soddisfazione, of course, in fondo siamo
in Australia, no? Un cartello colorato indica la nostra prima tappa
odierna, e così svoltiamo a sinistra, percorrendo per qualche
chilometro una stretta e polverosa strada sterrata. Siamo in prossimità
dell’Adelaide River e qui si trova una delle maggiori attrattive del
circondario, il “jumping crocodile”. Il nome può far pensare a
qualche classica trappola “acchiappaturisti”, dove tutto è stato
creato a regola d’arte per compiacerli, mettendo in scena qualche
spettacolo artificiale, ma in realtà, terminata la strada, qui troviamo
solo una casetta in legno da cui fuoriesce musica country che funge da
biglietteria, ed un grosso barcone dal fondo piatto, che alle nove in
punto salpa verso il centro del limaccioso fiume. L’Adelaide River
ospita una delle più grosse concentrazioni d’Australia di coccodrilli
estuarini, familiarmente chiamati “saltie”, che avvistiamo in
quantità industriale pochi secondi dopo. Infatti, si resta davvero
impressionati dall’ingente numero di questi grossi rettili, ed in
breve tempo le iniziali esclamazioni di stupore dovute al loro costante
avvistamento, lasciano il posto ad una più semplice presa di coscienza
di trovarsi nel loro habitat, e ci si rende dunque conto che costituiscono parte integrante
del contesto paesaggistico in cui siamo. Ma l’attrattiva della
crociera consiste nel gettargli dei grossi pezzi di carne legati a delle
funi, e vederli con impeto saltar verticalmente fuori dall’acqua per
afferrarla. Un autentico spettacolo, considerata soprattutto l’immensa
mole che li caratterizza e quelle gigantesche fauci, che vediamo
spalancarsi ad un paio di metri al massimo da noi. Nel
primo pomeriggio arriviamo a Jabiru, sistemandoci all’Holiday Inn
Gagudju Crocodile, particolare hotel dalla forma di coccodrillo che,
aldilà di un’elegante hall dalla temperatura polare, è di fatto
comunque strutturato come un classico motel, con i parcheggi ubicati
quasi a ridosso delle essenziali camere. Ci troviamo nel Kakadu National
Park, costituito da ventimila chilometri quadrati di natura allo stato
puro, ed inserito dal 1981 nella World Heritage List dell’Unesco. Le
cifre inerenti il parco sono sbalorditive, annoverando al suo interno
qualcosa come 60 specie differenti di mammiferi, tra cui svariati tipi
di marsupiali, circa 280 specie di uccelli, 117 specie di rettili nei
quali sono stati censiti pressappoco 3.500 coccodrilli estuarini, 53
razze diverse di pesci, più di 10.000 tipi di insetti, oltre 1700
specie di piante diverse, oltre a più di 5.000 siti di arte rupestre
aborigena, la maggior parte dei quali chiusi ai visitatori, in quanto
considerati sacri dalle comunità locali. Il suo nome deriva proprio dal
termine aborigeno Gagudju e gli aborigeni sono i proprietari di queste
terre, date in gestione al governo australiano per amministrarle come
parco nazionale. All’interno del Kakadu vedremo diversi rangers
aborigeni, a partire proprio dal Bowali Visitor Centre, dove ci rechiamo
subito dopo aver sistemato i nostri bagagli in camera. In questo
esaustivo centro informativo, dove è possibile reperire svariate mappe
e numeroso materiale illustrato, tramite un percorso esplicativo e dei
video si viene introdotti alle numerose attrattive del parco. I rangers
sono a disposizione per qualsiasi informazione necessiti, ed inoltre
vengono costantemente aggiornate le condizioni delle strade. Qui
apprendiamo che le Jim Jim Falls, uno dei principali luoghi
d’interesse del parco sono sostanzialmente asciutte e rinunciamo
quindi a priori alla loro visita, anche se in verità eravamo
parzialmente preparatati a questo, trovandoci nella cosiddetta “dry
season”. Restiamo un po’ di tempo nel centro, ed in seguito torniamo
indietro sull’Arnhem Highway, deviando qualche chilometro dopo sulla
destra, in direzione di Ubirr, centro spirituale aborigeno ricco di
pittogrammi, che raggiungiamo dopo 39 chilometri, guidando in completa
solitudine. Una volta parcheggiato, ci addentriamo rapidamente
attraverso un sentiero circolare della lunghezza di un chilometro circa
che, snodandosi in un paesaggio costituito da alberi, terra rossa, rocce
e fitta vegetazione secca, ci conduce presso i vari siti in cui sono
presenti diverse raffigurazioni d’arte rupestre appartenenti a varie
epoche, le più antiche delle quali risalgono addirittura a ventimila
anni fa. Lungo il tragitto, fuoriescono spesso vari rumori dalla
boscaglia circostante e mentre ci aspettiamo di
veder saltare fuori qualche canguro, restiamo invece sorpresi
nello scorgere diversi strani e grossi uccelli, ma raggiungendo invece
quella che viene chiamata la “main gallery”, quando stiamo
arrampicandoci sulle rocce per ammirare le pitture rupestri, sopra di
noi, a gran velocità, saltella inaspettatamente un grosso wallaby,
disperdendosi rapidamente nella circostante vegetazione. Ci inerpichiamo
in seguito fino al “Nardab Lookout”, una sorta di tavolato roccioso
da cui si gode di una meravigliosa vista su Ubirr e sulla scarpata
dell’Arnhemland. Qui aspettiamo che il sole scivoli lentamente sulle
wetlands, mentre tutt’intorno regna una straordinaria quiete. Il
mattino successivo, dopo aver percorso una cinquantina di chilometri
lungo una deserta Kakadu Highway, alle nove in punto siamo già presso
l’imbarcadero dello Yellow Water Billabong, ubicato
alla confluenza del South Alligator River e del Jim Jim Creek.
Salpiamo a bordo di un barcone dal fondo piatto, effettuando una
crociera di un paio d’ore attraverso questa grossa palude orlata da
vegetazione. Poco oltre il punto d’imbarco, quasi a volerci dare il
benvenuto, un grosso coccodrillo estuarino nuota semisommerso
placidamente, facendo appena intravedere la sua robusta corazza, che
fuoriesce parzialmente dall’acqua. La giornata è meravigliosa, ed un
cielo azzurrissimo si specchia lungo i canali, sulle cui sponde, nemmeno
stessimo guardando un documentario del National Geographic, ammiriamo
comodamente numerose specie di uccelli acquatici, un grosso esemplare di
serpente, gli immancabili ed ormai direi familiari “saltie”,
autentici protagonisti e signori incontrastati di questo ambiente
selvaggio, ma anche animali che francamente non ci aspettavamo di
osservare, come bufali e cavalli ovviamente non originari del posto, ma
riprodottisi negli anni allo stato brado. Si tratta dell’ennesimo
sensazionale spettacolo, che la stupefacente natura del Northern
Territory ci sta regalando. Terminata la piacevole escursione, facciamo
rifornimento presso il Gagudju Lodge di Cooinda, ed in seguito
trascorriamo un po’ di tempo al Warradjan Cultural Centre, leggendo affascinanti storie
sulla creazione secondo la mitologia degli aborigeni locali e vedendo
delle interessanti proiezioni inerenti le stesse comunità del posto.
Tornando per una breve sosta al nostro hotel, troviamo inaspettatamente
in camera un agghiacciante messaggio, in cui la direzione avverte gli
ospiti che, a seguito comunicazione del corpo forestale, l’acqua del
parco risulta contaminata e pertanto occorre strettamente evitare ogni
contatto con la stessa. Solo ora capiamo perché, quest’oggi, la
piscina è così insolitamente affollata. Per fortuna a Darwin avevamo
acquistato una tanica d’acqua da trenta litri, al fine di usarla
proprio in caso di necessità nel corso del viaggio, anche se mai
avremmo potuto immaginare un simile evento. Partiamo nel primo
pomeriggio alla volta di Nourlangie, che raggiungiamo dopo una trentina
di chilometri. Si tratta di uno dei siti d’arte rupestre più
importanti dell’intera Australia, dove troviamo i celebri pittogrammi
raffiguranti ancestrali personaggi dai nomi per noi impronunciabili come
Namarrgon, Namondjok, Barrginj
e Nabulwinjbulwinj, che abbiamo
visto tante volte riprodotti su molti testi. Lasciato il parcheggio,
iniziamo il nostro percorso attraverso un sentiero che si snoda in una
fitta boscaglia, con l’assillo costante delle mosche, che qui sono
davvero insopportabili, tanto che ci pentiamo presto amaramente di non
aver acquistato delle retine appositamente confezionate per proteggere
il viso. Sì, perché occorre davvero dire che se le mosche sono state
finora un po’ una costante nel Northern Territory, qui a Nourlangie,
perlomeno oggi, rappresentano un vero e proprio flagello. La nostra
prima deviazione sulla sinistra è rappresentata dall’Anbangbang
Shelter, una galleria naturale usata nei secoli come rifugio dai clan
aborigeni dei Warramal e dai
vicini Badmardi,
nella quale è possibile ammirare pitture risalenti ad oltre ventimila
anni fa. Seguendo il medesimo sentiero, il quale si inerpica per lievi
tratti attraverso delle rocce, ci spostiamo assieme al nostro personale
gruppetto di mosche fino al Gunwarddhwarde Lookout, da cui godiamo di un
magnifico panorama del sottostante bush, che si allunga fino all’Arnhemland,
territorio aborigeno grande quasi un terzo dell’Italia, il cui
ingresso ai visitatori è strettamente vincolato a speciali permessi.
Sopra di noi, maestosa, si innalza la grande rossa rupe in arenaria di
Nourlangie, che conferisce realmente al posto un non so che di mistico,
malgrado le onnipresenti mosche ci riportano invece presto alla realtà. L’indomani,
di buon mattino lasciamo il Kakadu, parco in cui si potrebbe stazionare
svariati giorni vedendo sempre cose diverse, e ci dirigiamo a sud, lungo
la Kakadu Highway. Attorno alle nove, avendo già guidato per circa 160
chilometri, sostiamo presso la Maryriver Roadhouse, spartana stazione di
servizio dove sembra non esserci nessuno, tranne il solito nugolo di
mosche che probabilmente aspettavano impazienti dei visitatori, e due
simpatici wallabies che, a differenza delle stesse mosche, non appena
apriamo le portiere dell’auto, si dileguano con pochi balzi nella
boscaglia circostante. Con un sottofondo di musica country, un barbuto e
scalzo omaccione sulla cinquantina ci serve delle uova fritte con bacon,
che probabilmente a causa del contesto in cui ci troviamo, o più
semplicemente per una questione di pura fame, ci sembrano
particolarmente deliziose. Riprendiamo la nostra marcia e dopo aver
imboccato all’altezza di Pine Creek la Stuart Highway in direzione
sud, poco più di due ore dopo arriviamo a Katherine, sonnolenta
cittadina del Northern Territory abitata da circa settemila anime, che
attraversiamo nel tratto iniziale, svoltando in seguito a sinistra sulla
Giles Street, su cui transitiamo per una trentina di chilometri
attraverso il bush. Quando sono appena le undici, ed abbiamo già
percorso da stamattina quasi trecentocinquanta chilometri, arriviamo al
Nitmiluk National Park, dove prenotiamo una crociera di quattro ore in
partenza alle tredici. Trascorriamo un po’ di tempo nel visitor centre,
apprendendo qualcosa sulla storia del parco nazionale e sulla comunità
degli Jawoyn, gli originari possessori di queste terre. Poco dopo le
tredici, il barcone inizia a navigare lungo la prima delle tredici gole
rocciose scavate dal fiume Katherine, che costituiscono parte integrante
di questo parco nazionale di circa tremila chilometri quadrati, in
questo punto più comunemente chiamato Katherine Gorge. Lo scenario,
caratterizzato da lunghi canyon sovrastati dalle rossastre rocce alte
fino a sessanta metri, è altamente suggestivo, e sono molti i
visitatori che percorrono qualcuna delle gole in canoa. Alla fine della
prima, un sentiero attraverso delle rocce conduce a delle gallerie di
arte rupestre, presso le quali ci soffermiamo un po’ di tempo prima di
cambiare battello, ed iniziare la navigazione della seconda gola. Il
silenzio è irreale. Si susseguono varie spiaggette ai margini delle
grandi formazioni rocciose, ed in numerosi punti, alcuni emblematici
cartelli vietano espressamente lo sbarco dei turisti a causa della
nutrita presenza dei coccodrilli di acqua dolce, localmente chiamati “freshie”,
i quali superano raramente i tre metri di lunghezza, e che a differenza
dei cugini estuarini non costituiscono generalmente un pericolo per
l’uomo, se non espressamente provocati. Nel corso della navigazione ne
scorgiamo diversi e ci appaiono davvero incuranti di tutto,
crogiolandosi tranquillamente al sole. La fine della seconda gola è
notevolmente spettacolare. Il fiume Katherine si perde a vista
d’occhio in mezzo alle due alte pareti rocciose, parzialmente coperte
nella parte bassa da vegetazione, mentre il color arancio delle stesse,
fatto brillare dal caldo e basso sole pomeridiano, si riflette nel blu
intenso del fiume. Nuovo cambio di barcone e successiva navigazione
nella terza gola, l’ultima contemplata dal nostro giro, dopodiché
torniamo indietro, ripetendo l’operazione fino a quella iniziale. Qui,
presso un banco di sabbia ai margini del fiume ci arrestiamo, e dopo
mille rassicurazioni sulla tranquillità del posto da parte della guida,
possiamo concederci un tonificante bagno della durata di una buona
mezz’ora. Mi allontano, nuotando per un po’ in solitudine lungo
l’attigua sponda, e proprio mentre stavo godendomi in pieno relax
l’incredibile tranquillità di questo magico posto, vengo richiamato
dalle insistenti grida di Patrizia e degli altri partecipanti
all’escursione. D’accordo, sarà anche non aggressivo, ma scorgendo
dapprima nell’acqua la sua lunga sagoma corazzata, e realizzando in
seguito che si trova a poco meno di quindici metri da me, francamente mi
si gela il sangue nelle vene, e considerato che non mi sono mai sentito
nemmeno lontanamente parente di Johnny
Weissmuller,
decido di battere prontamente in ritirata e guadagnare precipitosamente
la riva. Sulla
via del ritorno, mentre percorriamo il sentiero che conduce al visitor
centre, incontriamo un gruppo di canguri che, vinta la normale
diffidenza iniziale, e mantenendosi comunque pur sempre ad una dovuta
distanza, si lasciano parzialmente avvicinare da Valentina. Restiamo
compiaciuti ad osservarli in silenzio, assieme ad una famigliola locale,
di cui facciamo in seguito la conoscenza. Amano spesso trascorrere qui
il tardo pomeriggio, in compagnia proprio dei canguri, che a quanto
sembra, sono di casa. Questo piacevole quanto inatteso incontro, ha
suggellato nel migliore dei modi questa intensa giornata, trascorsa a
stretto contatto con le meraviglie naturalistiche del Northern Territory.
La sera ceniamo presso lo Shangai Chinese Restaurant di Katherine, un
piccolo locale che ha i tavoli all’aperto proprio sulla Stuart
Highway, dove ci accomodiamo dopo aver acquistato qualche birra presso
un vicino bottle shop. Tra un saporito fried rice, ed un ringhioso road
train, che transita impetuoso sulla strada, non possiamo far a meno di
notare anche le decine di aborigeni che stazionano ubriachi lungo
l’aiuola che funge da spartitraffico, e questo triste spettacolo,
ancora una volta mi amareggia notevolmente.
Le
lancette dell’orologio non hanno ancora toccato le nove, quando
abbiamo già percorso centodieci chilometri lungo la Stuart Highway,
arrivando a Mataranka, località dove è stato ambientato da Jeannie Gunn uno dei classici della letteratura australiana,
intitolato “We
of the never never”, in cui viene narrata la dura vita dei pionieri aussie alla fine del
diciannovesimo secolo. Svoltiamo a sinistra, raggiungendo per prime le
Mataranka Bitter Springs. Sul posto non troviamo nessuno, ad eccezione
di una famigliola di tedeschi che hanno trascorso qui la notte, e stanno
preparandosi la colazione fuori dal proprio camper. Ci troviamo a
ridosso dell’Elsey National Park, costituito da una porzione di
foresta pluviale in pieno bush, nel quale scorrono i fiumi Waterhouse e
Roper. Una piccola passeggiata attraverso una vegetazione tipicamente
tropicale ci conduce alle piscine termali, che sono caratterizzate da
una limpida acqua verde smeraldo, ma, soprattutto, da una temperatura
costante attorno ai trentaquattro gradi. L’ambiente è quello tipico
di un classico stagno, attorno a cui cresce una folta vegetazione
costituita da piante, grossi alberi e fitte canne di bambù, ed
effettivamente non invoglia molto ad immergersi, sebbene l’acqua sia
un vero e proprio brodo e ci induca rapidamente a farci coraggio,
beneficiando in completa solitudine di un eccezionale bagno mattutino in
questa sorta di oasi in mezzo all’outback. Riprendiamo l’auto,
raggiungendo in seguito le famose “thermal pool”, tappa quasi
obbligata di tutti i viaggiatori che percorrono la Stuart Highway, dove
arriviamo dopo aver attraversato il Mataranka Homestead. Qui
l’ambiente è più curato rispetto alle “bitter springs”, malgrado
la piscina naturale sorga ugualmente in un contesto naturalistico
altamente spettacolare, costituito da una rigogliosa vegetazione.
L’acqua, sempre sui trenta gradi, è incredibilmente trasparente e le
numerose particelle di calcare disciolto le conferiscono un irreale
color verde acceso. Si tratta veramente di un posto incredibile, dove
trascorriamo gran parte della mattinata, in compagnia di qualche turista
australiano. Percorriamo successivamente un sentiero all’interno del
parco, il quale ci conduce a ridosso del Roper River, dove un perentorio
cartello avverte i visitatori che lo stesso è abitato da coccodrilli
d’acqua dolce. Vicino alla riva il fiume è particolarmente pulito e
scorgiamo nitidamente numerosi pesci ed alcune simpatiche tartarughine.
Riprendiamo quindi la Stuart Highway in direzione Katherine, dove
giungiamo attorno all’ora di pranzo, fermandoci a far spesa presso il
locale supermercato Woolworths.
Numerosi motel australiani consentono ai propri ospiti di usufruire di
un’area appositamente attrezzata per il barbecue, così ne
approfittiamo, e sotto un caldo sole, mi ritrovo poco dopo a cuocere
bistecche in un verde praticello d’Australia, dove ogni tanto, al di
fuori della staccionata fa capolino un wallaby, che incuriosisce
particolarmente Valentina. Insalatona gigante, megabistecca, qualche
bella QVB ghiacciata, quiete allo stato puro e piccoli parenti dei
canguri che saltellano intorno. Sì, direi che il quadro è decisamente
perfetto e può tranquillamente rappresentare uno scorcio d’Australia
a lungo rincorso nei sogni. Siamo
ancora sulla Stuart Highway, che percorriamo questa volta per circa
quaranta chilometri in direzione nord, fino ad imboccare sulla destra la
strada che, in venti chilometri, ci conduce alle Edith Falls, nel Nitmiluk
National Park. Le cascate sono parzialmente asciutte, ma il bel laghetto
sottostante, circondato da pandani ed eucalipti invita a bagnarsi,
malgrado l’acqua sia sensibilmente gelida. Anche qui ci sono numerosi
sentieri più o meno lunghi, oltre all’immancabile area dove accendere
il barbecue, questo pomeriggio occupata da un numeroso gruppo di
aborigeni. Il
giorno successivo, al mattino presto lasciamo definitivamente Katherine,
i cui spettacolari dintorni meritano un posto d’onore tra le più
belle località ammirate durante questo viaggio. Sostiamo all’Hayes
Creek Roadhouse, dove consumiamo uova fritte e bacon in compagnia di
alcuni pittoreschi e barbuti conducenti di road trains. Proseguendo la
nostra marcia lungo la Stuart Highway, ventisette chilometri dopo aver
superato la località di Adelaide River voltiamo a sinistra in direzione
di Batchelor, porta d’ingresso al Litchfield National Park, che
raggiungiamo dopo una mezz’ora. Va detto, questo parco è a mio parere
uno dei più spettacolari dell’intera zona. Effettuiamo la nostra
prima tappa al Magnetic Termite Mounds, magnifici nidi dall’aspetto di
enormi lastre paragonabili a delle grosse pietre tombali disseminate
lungo il terreno, che le termiti bussola erigono sapientemente
orientandoli da nord a sud, ottenendo in questo modo un costante
controllo della temperatura, a seguito dell’esposizione della
superficie minore al sole. La nostra successiva sosta avviene in
prossimità delle Florence Falls, che ammiriamo dall’alto, prima di
scendere nel sottostante laghetto, dove ci concediamo un rigenerante
bagno nelle sue fresche acque circondate da lussureggiante vegetazione,
in compagnia di una scolaresca costituita da ragazzi aborigeni. Ci
spostiamo in seguito ai Buley Rockhole, dove un torrente ha scavato nei
secoli diverse grosse piscine naturali, separate tra loro da rocce e
piccole cascate. Il posto è straordinario e vi trascorriamo diverso
tempo, rilassandoci in queste acque smeraldine, nonché godendo di
naturali idromassaggi aggrappati alle rossastre rocce che frenano
l’impetuoso corso del piccolo fiume. All’ingresso delle Wangi Falls
troviamo il solito cartello che avverte i visitatori circa la possibile
presenza dei freshwater crocodiles, e malgrado le cascate abbiano in
questa stagione una portata limitata, il bacino d’acqua che le stesse
creano è altamente spettacolare, essendo interamente circondato da
vegetazione, che si riflette conferendogli un caratteristico color
verdognolo. Stranamente Valentina non si allontana di molto dalle
scalette in pietra che scendono in acqua e questo ci sembra alquanto
strano, considerato che finora difficilmente si riusciva a contenerla
nei numerosi bagni effettuati nei parchi del Northern Territory. Quando
Patrizia la invita a raggiungerla pochi metri oltre, la sua risposta ci
fa scoppiare in una grande risata: “non ci penso nemmeno mamma, io sto
bene qui, ho sentito che ci sono i coccodrilli, quelli che ieri volevano
mangiare papà”. Le Tolmer Falls, poco più di un rigagnolo d’acqua,
costituiscono la nostra ultima tappa nel Litchfield National Park, ed
attraverso strade costellate di fitti boschi di eucalipti, prendiamo la
direzione della Stuart Highway e di Darwin, che raggiungiamo circa 130
chilometri dopo. La
sera ci rechiamo presso il Wharf Precinct, dove le vecchie banchine sono
state ristrutturate, creando un centro di ritrovo costituito da numerosi
stand gastronomici, specializzati per lo più in frutti di mare e
crostacei, ma dove trova posto anche l’onnipresente cucina asiatica.
Tra i numerosi abitanti di Darwin, qualche turista, un piatto di
ostriche e frutti di mare, un kao pad thailandese, ed un paio di
bottiglie di vino, la nostra serata, l’ultima per quest’anno in
terra australiana, scivola malinconicamente sotto un cielo che sembra più
stellato del solito. Il giorno seguente un aereo ci condurrà a
Singapore, dove sosteremo per l’ennesima volta prima di tornare in
Italia, ma il viaggio inizia ora, ed il perché ve l’ho scritto
all’inizio del racconto: l’Australia
è sempre lì, dall’altra parte del mondo, sottosopra nel planisfero,
fissa nei miei pensieri, e semichiusa a mò di puzzle nel nostro
personale cassetto dei viaggi. Puzzle a cui ogni tanto aggiungiamo un
tassello, ammirandone compiaciuti la progressiva realizzazione, fino al
fatidico giorno del suo futuro completamento. Perché
l’Australia lo sa, conosce la nostalgia che sta attanagliandoci e ci
aspetta, consapevole come noi che prima o poi torneremo a percorrere i
suoi spazi infiniti, ad ammirare i suoi infuocati tramonti, a respirare
i suoi grandi silenzi, ad immergerci nella sua incredibile natura. Sa
che ancora una volta, prima o poi, torneremo a viaggiare… Down Under.
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