- Un viaggio Down Under -

La partenza è fissata in un caldo pomeriggio d’agosto 2005, ma il viaggio è in realtà iniziato quattro anni fa, quando, lasciate le coste del Queensland, cominciammo a progettare il nostro ritorno in Australia. Nella vita, però, si sa, spesso le cose non vanno come si vorrebbe, o perlomeno, come intendiamo pianificarle, e di conseguenza succede poi che, per svariati motivi su cui non mi soffermerò in questa sede, si viaggia negli anni in altri posti del mondo, pur non dimenticando il progetto iniziale, che resta comunque sempre vicino ai nostri cuori. Infatti, quando con mia moglie consideravamo nuove mete in cui peregrinare, la domanda che reciprocamente ci ponevamo, inevitabilmente era sempre la stessa: “E l’Australia, allora?” Già, l’Australia. L’Australia era sempre lì, dall’altra parte del mondo, sottosopra nel planisfero, fissa nei miei pensieri, e semichiusa a mò di puzzle nel nostro personale cassetto dei viaggi. Un puzzle a cui ogni tanto aggiungevamo un tassello, e di cui ammiravamo compiaciuti la progressiva realizzazione, fino al fatidico giorno del suo futuro completamento. Intanto, mese dopo mese ricevevo con impressionante regolarità decine di opuscoli, e confesso che era un sottile piacere rincasare la sera, trovando nella propria buca delle lettere una busta, il cui impresso timbro di provenienza recava nomi come Alice Springs, Sydney, o Darwin, che mi facevano di fatto viaggiare con la fantasia. E poi, qualcuno di voi crede alle coincidenze?  Beh, rimane indubbiamente difficile da raccontare, ma durante i mesi scorsi, in numerose occasioni, e quasi a volermi ripetutamente ricordare qualcosa, ho ascoltato per caso alla radio un vecchio brano intitolato “Down under” dei Men at work, gruppo australiano in voga negli anni ottanta, e quel gradevole ritornello mi era entrato letteralmente nella testa, al punto tale che, durante l’arco della giornata, canticchiavo come un matto “Do you come from a land down under? Where women glow and men plunder, can’t you hear, can’t you hear the thunder, you better run, you better take cover.” Stavo anche stavolta inizialmente pianificando un altro viaggio, in un posto completamente diverso, ma mi accorsi che quel vecchio puzzle era ormai terminato, che l’attrazione per l’Australia era sostanzialmente divenuta insostenibile, e che questo, era quindi l’anno giusto per tornare… down under.

Così, dopo aver soggiornato con immenso piacere ancora una volta a Singapore, la terza per la precisione nel corso del nostro girovagare attorno al mondo, in una fresca mattinata di questo inverno australe atterriamo a Sydney, mentre deve ancora sorgere il sole.

Il nostro elegante appartamento, felicemente ubicato lungo la George Street, principale arteria del Central Business District, è dotato di ogni genere di confort, comprese lavastoviglie, lavatrice e lavasciuga. Sì, decisamente un lusso. La strada sottostante inizia ad animarsi di impiegati in giacca e cravatta, che corrono spediti a prender possesso delle loro postazioni di lavoro, mentre noi iniziamo poco dopo a prendere dimestichezza con le strade di Sydney, dirigendoci a piedi verso il Circular Quay e con lo sguardo rivolto di tanto in tanto sui grandi e luccicanti edifici sovrastanti. L’aria frizzante invoglia a passeggiare, così giungiamo rapidamente a Macquarie Place,  fermandoci di fronte all’obelisco in arenaria sul quale furono impresse le distanze che separavano Sydney dalle altre colonie. L’artefice di questo monumento fu l’architetto Francis Greenway, un nome che dice probabilmente poco, sebbene detenga un piccolo record mondiale, come quello di esser stato l’unico falsario a comparire su delle banconote ufficiali, in vigore fino a qualche anno fa, e possa in un certo qual modo rappresentare la recente storia dell’Australia, giovane nazione i cui primi abitanti furono per la maggior parte dei forzati. Greenway giunse a Sydney come detenuto nel 1814. Circa due anni dopo, fu nominato architetto civile da Lachlan Macquarie, governatore dell’epoca. Progettò qualcosa come 40 edifici pubblici, e cinque anni in seguito al suo arrivo in Australia fu graziato. Conobbe  fama e benessere, ma morì in disgrazia, sempre a causa della sua poco edificante condotta di vita. Questa città, che sin dai primi momenti ci sta attraendo, fu fondata nel gennaio del 1788 dal capitano Arthur Phillip, che partì otto mesi prima dall’Inghilterra con undici navi, le quali trasportavano tra l’altro circa 750 condannati ai lavori forzati, che di fatto furono i suoi primi abitanti. Infatti, una volta perdute le colonie americane a seguito della guerra d’indipendenza, il Regno Unito perse conseguentemente anche il luogo privilegiato in cui sfoltire le proprie sovraffollate carceri, e questa situazione, che negli anni a seguire diventò oltremodo pesante, unita al timore delle mire espansionistiche francesi nel Pacifico, portò gli inglesi a maturare l’idea di istituire in via sperimentale un bagno penale nel luogo decantato da James Cook alcuni anni prima. In realtà, tessendo le lodi della Botany Bay, che visitò in autunno, quando le piogge rendono solitamente il paesaggio lussureggiante, il grande navigatore non tenne conto nel suo rapporto delle stagioni invertite, così, nel momento in cui Phillip ed il suo carico di galeotti giunsero nella suddetta baia in piena estate, trovarono un posto le cui condizioni climatiche e naturali erano a dir poco avverse per fondarvi una città. Navigarono quindi ancora verso nord, fino a scoprire uno dei più grandi porti naturali del mondo, il quale si estende per circa venti chilometri verso l’interno, fino alla foce del fiume Paramatta. Era questo il luogo ideale in cui far sorgere il nuovo insediamento, che in seguito prese il nome di Sydney, ed i cui primi abitanti furono dunque in prevalenza dei forzati, che qui continuarono ad esser deportati per oltre sessanta anni, come viene ben spiegato nel vicino Museo di Sydney, che ci accingiamo a visitare. Il museo sorge proprio sui resti dell’abitazione del governatore Phillip, fatta erigere nel 1788, ed attraverso vari oggetti, plastici e cartine, illustra la storia della città, nonché la trasformazione dell’ambiente circostante a cui assistettero loro malgrado gli Eora, gli abitanti originari del luogo. Di particolare rilievo è la Cadigal Place, che mediante delle bacheche in cui sono esposti materiali di uso quotidiano come silice ed ocra, una bellissima canoa originale, ed altri oggetti ancora, rende onore ai Cadigal, il clan aborigeno proprietario della terra su cui sorge oggi il Museum of Sydney.

Dal museo al Circular Quay il passo è breve. Questo è il posto dove presumibilmente Arthur Phillipp piantò l’union jack, fondando di fatto Sydney e dando vita all’Australia, ma è anche il luogo dove oggi confluiscono i ferries che collegano quotidianamente le altre località della baia al CDB (Central Business District). Passeggiando lungo la parte destra del grosso molo, notiamo subito la sagoma mastodontica dell’Harbour Bridge, che spicca sull’altro lato. Le cifre inerenti il ponte, testualmente fornite direttamente dall’Ente turistico australiano, sono a dir poco impressionanti: “inaugurato nel 1932, il ponte misura 1.149 metri di lunghezza, pesa 52.800 tonnellate, è tenuto insieme da sei milioni di chiodi e ci sono voluti 272.000 litri di vernice soltanto per il rivestimento iniziale. La manutenzione del colore è ininterrotta. Occorrono 10 anni e 30.000 litri di vernice prima che sia completata e possa ricominciare di nuovo”.

Il punto di vista è eccezionale, Patrizia sembra entusiasta, ed ancor più Valentina, che detiene lei stessa una sorta di piccolo record, raggiungendo per la seconda volta l’Australia, alla veneranda età di quattro anni e mezzo.

Dunque, ricapitoliamo: l’entusiasmo è quello giusto, abbiamo l’imponente mole in acciaio dell’Harbour Bridge sulla nostra sinistra, la bellissima baia si estende immensa di fronte a noi, gli affollati traghetti solcano le placide acque, gli scintillanti grattacieli del CBD incorniciano la parte retrostante sfidandosi tra loro in altezza, lungo il Circular Quay East, dove ci troviamo ora, si susseguono bar e ristorantini, tutta la passeggiata è affollata di gabbiani, l’aria si è riscaldata, raggiungendo gradualmente la temperatura di circa venti gradi, ottima direi per passeggiare, ed eccellente considerando che qui siamo in inverno. Sembra tutto perfetto, eppure manca qualcosa. Ma sì, manca l’Opera House, che dopo aver percorso ancora qualche decina di metri, troviamo maestosa dinnanzi a noi, convincendoci davvero che ci troviamo a Sydney. Già, perché malgrado tutto, l’Opera House è la vera ed indiscussa icona di questa città. Effetto mediatico e propagandistico, grande pubblicità, oppure semplice retorica in cui sto scadendo, mettiamola pure come vi pare, ma dopo aver a lungo agognato un viaggio, volato per oltre diecimila miglia, aver visto apporre il timbro australiano sul proprio passaporto, aver regolato in avanti di otto ore le lancette dell’orologio, aver finora visitato il museo della città e di conseguenza appreso la sua storia, aver visto il Circular Quay, l’Harbour Bridge e la baia, l’Opera House e dico solo l’Opera House, riesce a farmi esclamare con enfasi: “cazzo ragazzi, ce l’ho fatta, sono a Sydney”!    

Passeggiamo quindi lungo il lato sinistro del teatro che, visto da vicino, non sortisce certamente lo stesso effetto iconografico. Sul retro della stesso, si gode però di una fantastica prospettiva della baia in tutta la sua estensione e dell’Harbour Bridge, tanto che una giovane coppia di sposi, l’ha oggi scelta come scenario per le proprie fotografie. Luogo turistico per antonomasia e simbolo stesso della città, l’Opera House deve la sua esistenza al genio incompreso dell’architetto danese Jørn Utzon, il cui progetto innovativo risultò vincitore tra i 233 presentati, al fine di edificare un teatro dell’opera, nel punto in cui sorgeva un vecchio capolinea tranviario. La costruzione iniziò nel 1959, con un preventivo di spesa stimato attorno ai sette milioni di dollari australiani, ma i problemi non tardarono ad arrivare, ed Utzon si scontrò presto con le forti polemiche legate ad un design così azzardato che, associate a problematiche di carattere puramente tecnico, fecero allungare di molto i tempi di realizzazione e lievitare sensibilmente i costi. Il primo Marzo del 1966, il Sydney Morning Herald titolò emblematicamente “Utzon Quits Opera House”. Se ne andò dall’Australia, dove non rimise più piede. Furono assoldati degli architetti locali per proseguire i lavori, che tuttavia continuarono ad andare a rilento e con ulteriori aggravi di costi, tanto che, al cospetto di Elisabetta II, il 20 ottobre 1973, data prescelta per l’inaugurazione del teatro, lo stesso era costato circa dieci volte di più rispetto alle stime iniziali. Jørn Utzon, quel giorno non venne nemmeno nominato.

Dopo aver effettuato il giro completo del teatro in senso orario, giungiamo sulla sua monumentale scalinata, dove ci sediamo in compagnia di moltissima gente di varie nazionalità. D’accordo, sarà anche un’icona, ed emblema turistico di Sydney per eccellenza, ma restando spensieratamente seduti per qualche tempo sui suoi gradini, anche se non so bene il perché, ci si può davvero sentire come dei cittadini del mondo. Sotto di noi è ubicato l’ingresso dei Royal Botanic Gardens, autentico polmone verde di questa parte della città, la cui superficie complessiva ammonta a circa trenta ettari, decisamente troppi in cui passeggiare quest’oggi, specialmente dopo che Valentina ha adocchiato una sorta di trenino turistico, che coprirebbe l’intero percorso in poco più di mezz’ora. Si può forse dire di no ad una bambina? Alcuni minuti dopo, in compagnia di qualche anziano turista, un paio di altre coppie con prole al seguito, e l’immancabile comitiva di giapponesi con microscopiche telecamere incorporate, partiamo a bordo, iniziando a percorrere i sentieri situati all’interno di questa specie di museo vivente, il quale annovera decine e decine di piante diverse, tra cui spicca un boschetto costituito da 180 specie di palme differenti, ma anche stagni in cui nuotano anitre ed altre numerose specie di uccelli acquatici, varie fontane ornamentali, curatissime aiuole ricche di fiori, ed altro ancora. Il posto, occorre dirlo, è straordinario. Le enormi distese di prati all’inglese perfettamente rasati ospitano molti impiegati elegantemente vestiti, del tutto intenti a consumare la loro pausa pranzo dopo aver allestito un bel picnic, così come notiamo diverse scolaresche radunate a semicerchio attorno all’insegnante, mentre più in là, attaccati ai rami di alcuni grandi alberi, ci sono decine di enormi pipistrelli della frutta, che appaiono del tutto irreali in questo contesto, specie se si spazia con lo sguardo poco oltre, dove si stagliano imponenti gli enormi grattacieli vetrati del Central Business District. Finito il giro passiamo nuovamente lungo il Circular Quay, che nel frattempo si è animato di artisti di strada, turisti, pendolari, saltimbanchi, giocolieri, nonché alcuni aborigeni impegnati ad esibirsi con il loro didgeridoo, i quali, con quell’aspetto da mendicanti, non mi fanno francamente un bell’effetto, ma di questo scriverò successivamente. Imbocchiamo in seguito il Circular Quay West e dopo aver superato il Museo di Arte Contemporanea, raggiungiamo le Campbell’s Storehouses, costruzioni originariamente appartenute al facoltoso mercante Robert Campbell, un tempo impiegate come magazzini, ed oggi trasformate in raffinati ristoranti, da cui si gode una spettacolare vista del Circular Quay e dell’Opera House. Considerato quindi che è già ora di pranzo, che lo stomaco a ragione si lamenta, e che io non sono certo il tipo che si fa pregare in determinate situazioni, come non approfittarne? Malgrado ci troviamo nella parte più turistica della città, la maggior parte degli avventori del ristorante dove mangiamo è costituita da australiani, che consumano pranzi di lavoro. La nostra tavola viene imbandita da una dozzina di ostriche per cui la città è rinomata, una bottiglia di chardonnay servito alla giusta temperatura, ed un enorme piatto di crostacei e frutti di mare, mentre dall’altra parte del molo, quasi a volerci ancora ricordare dove siamo, si erge magnifica l’Opera House. Si può forse desiderare qualcosa di più in questo momento?

Nel pomeriggio, imboccando l’adiacente George Street, lasciamo questa zona dove torneremo nei prossimi giorni, dirigendoci sempre passeggiando alla volta di Darling Harbour, un tempo decrepito insieme di moli in rovina, ed ora elegante e moderno agglomerato di centri commerciali, ristoranti, musei, grattacieli ed innumerevoli attrattive, che si susseguono lungo entrambi lati di questa sorta di fiordo cittadino attraversato dal Pyrmont Bridge, lungo il quale corre la famosa monorotaia, collegando appunto Darling Harbour con il Distretto Finanziario. Va detto, il posto è davvero bello e così ricco di attrazioni, che vi si potrebbe tranquillamente trascorrere un’intera giornata, senza correre il rischio di annoiarsi. Entriamo nel Sydney Aquarium, per la felicità di Valentina che qui può osservare con meraviglia dal vivo alcuni protagonisti di un paio dei suoi lungometraggi preferiti come Nemo e Shark Tale, ma confesso che restiamo anche noi ammaliati dal posto, in verità davvero interessante. Nell’acquario vivono 11.000 esemplari di 650 specie diverse, facilmente ammirabili da molto vicino in tre oceanari, nei quali sono rappresentanti altrettanti habitat, ed il cui top si ha senza dubbio nel tunnel trasparente lungo circa 145 metri, il quale si snoda attraverso due vasche oceaniche. Dopo aver fatto un po’ di spesa presso un supermercato Woolworths, rincasiamo con i piedi sostanzialmente lessi, a dimostrazione ancora una volta, che le distanze sulle cartine possono apparire nettamente più brevi, di quanto poi siano nella realtà.

Il giorno seguente splende il sole, così, dopo aver fatto colazione nello straordinario Strand Arcade, ed aver passeggiato lungo il Pitt Street Mall, piacevole tratto pedonale ricco di negozi griffati, decidiamo di osservare la metropoli dall’alto, salendo sulla Sydney Tower, spettacolare torre dall’aspetto avveniristico alta 305 metri, la cui cima offre un grandioso panorama a 360 gradi di Sydney, che, semmai si avvertisse il bisogno di rimarcarlo, è davvero una gran bella città. Scendiamo sulla Market Street, che seguiamo fino all’Hyde Park, altro bel grande parco cittadino, che attraversiamo nel tratto iniziale, fino all’altezza della graziosa Archibald  Fountain. Dietro la fontana, sulla College Street, fa bella mostra di sé la St. Mary’s Cathedral, prima chiesa cattolica sul suolo australiano. E’ davvero piacevole passeggiare a metà giornata in questo parco, autentica oasi di quiete nella City Centre, dove, con grande meraviglia, vediamo addirittura degli ibis. Uscendo dall’Hyde Park visitiamo l’Australian Museum, primo museo in Australia, fondato nel 1827, nel quale sono presenti interessanti sezioni, come il cosiddetto Pianeta dei minerali, il settore inerente la flora e fauna australiana, quello degli scheletri, ma, soprattutto, quello riguardante la cultura aborigena, a cui è dedicata una grande sala espositiva, ricca di reperti archeologici, dipinti, e vecchie foto d’epoca. Nel primo pomeriggio ci fermiamo a pranzo in un food court nella centrale Pitt Street, che troviamo pieno di impiegati della City Centre intenti a destreggiarsi tra i vari stand di Sushi Bar, Oyster Bar, Noodle Bar, Vegetarian Bar, Pasta Bar, Thai Food, Chinese Food, Vietnamese Food, e chi più ne ha, più ne metta, aggiungendo che questi centri sono assai diffusi in città, ed offrono spesso buon cibo a prezzi convenienti. Dopo aver riempito degnamente lo stomaco, che in fondo, mi sembra giusto sottolinearlo, pretende a ragione la sua parte, raggiungiamo il Queen Victoria Building, notevole edificio in stile romanico dalla cupola centrale in rame, costruito nel 1898, ed usato sino alla fine della prima guerra mondiale come mercato ortofrutticolo. Restò in stato d’abbandono durante i successivi decenni, fino ad essere restaurato agli inizi degli anni ottanta. Oggi, nei suoi tre elegantissimi piani ospita circa 200 prestigiosi negozi, oltre a diversi raffinati caffè. Lo stilista Pierre Cardin, che, beato lui, ha avuto evidentemente la fortuna di girare tutto il pianeta, ha definito il QVB il centro commerciale più bello del mondo.

Se ieri abbiamo ammirato la città dall’alto, oggi, domenica, desideriamo farlo dalla baia, non facendo però possibilmente la classica crociera turistica, ma raggiungendo un luogo in cui trascorrere qualche ora assieme agli abitanti di Sydney, e così, di buon mattino, ci troviamo già sui moli del Circular Quay. Siamo inizialmente indecisi se recarci o meno a Manly Beach, celebre spiaggia ubicata a circa undici chilometri di distanza, ma il tempo nuvoloso e la fresca temperatura ci permettono di dissipare facilmente i nostri dubbi e ci spostiamo quindi al Wharf 2, dove acquistiamo tre “zoo pass” per il Taronga Zoo, rendendo oltremodo contenta nostra figlia. Dopo dodici minuti esatti di navigazione giungiamo sul molo opposto, dove un autobus ci conduce all’ingresso principale. Trascorriamo qui un po’ di tempo, in compagnia di numerose famigliole di Sydneysiders, e confesso che, mentre Valentina ci fa sorridere socializzando con un ripetuto “what’s your name?”, abbiamo modo di apprezzare i grossi spazi aperti in cui sono tenuti i vari animali, con un occhio di riguardo nei confronti della fauna locale, come canguri e wallabies. Mentre nel frattempo il cielo si è completamente aperto, la discesa con la funivia verso il molo, preannuncia in anticipo lo spettacolo di cui godremo durante la navigazione di ritorno, ovvero quello davvero sensazionale dello skyline di Sydney visto dal mare, autentica meraviglia, assolutamente da non perdere ! Una volta tornati sul Circular Quay, raggiungiamo facilmente a piedi The Rocks, primo insediamento europeo in Australia, sorto sullo sperone roccioso che divide Sydney Cove da Walsh Bay. Osservando gli splendidi edifici d’epoca del quartiere, quest’oggi a forte vocazione turistica, si riesce con un pizzico di fantasia quasi a percepire gli echi di un passato nemmeno tanto remoto, quando, agli inizi del 1800, Sydney era uno dei porti più malfamati del Pacifico, le strade di The Rocks erano infestate dai larrikins, criminali della peggior specie, le sue bettole popolate da balenieri, prostitute, malfattori, e la moneta di scambio maggiormente in voga era il rum del Bengala, i cui traffici erano controllati dai Rum Corps, una potente e spietata mafia militare. Un quadro certamente idilliaco, occorre dirlo. L’Inghilterra pensò di mettere le cose a posto nominando governatore nientemeno che William Blight, sì, proprio lui, quello del Bounty, che si mise subito rigidamente contro i Rum Corps, ed andò quindi presto incontro al suo secondo ammutinamento in carriera, che lasciò di fatto Sydney in mano ai militari per due anni, fino a quando Lachlan Macquarie, il nuovo governatore non riuscì a ristabilire l’ordine. Agli inizi del ‘900 interi edifici dei Rocks furono demoliti a seguito di un’epidemia di peste bubbonica, così come altri dovettero cedere il passo alla costruzione dell’Harbour Bridge. Nei primi anni ’70 si pensò addirittura di radere al suolo ciò che restava dello storico quartiere, al fine di realizzare nuovi grattacieli da adibire ad uffici, ma una ferrea opposizione impedì tale progetto, favorendone in seguito la ristrutturazione e la rinascita. Ci rechiamo al numero 18 di Argyle Street, dove troviamo la Löwenbräu Keller, birreria bavarese caldamente consigliataci in Italia dall’amico Corrado, in cui trascorriamo dei piacevoli momenti deliziandoci il palato con un gigantesco Schlachtplatte, squisito piatto della casa costituito da diverse specialità bavaresi, che innaffiamo con una, ma sì, diciamo anche due discrete Löwenbräu Dunkel. Anche qui, la maggior parte degli avventori è costituita dagli impiegati del vicino CBD, che evidentemente sanno ben godersi la propria pausa pranzo. Nel tardo pomeriggio, satolli come non mai, passeggiamo tra le oltre 150 bancarelle che animano nel week-end i Rocks, proprio quando sta imbrunendo ed inizia prontamente a rinfrescare, grazie anche ad un deciso vento che soffia incessantemente, mentre gruppi dal vivo animano gli interni dei pub circostanti, da cui fuoriescono musica, grida e risate. In serata torniamo ancora una volta nei paraggi dell’Opera House, sorseggiando un bicchiere di eccellente Penfolds Bin 707 presso un bar locale, allietati dal tepore prodotto dalle stufe danesi, felicemente posizionate lungo i tavolini ubicati all’aperto. E’ la nostra ultima sera a Sydney, città che sembra magistralmente assorbire con naturalezza le circa quattro milioni di persone che la popolano, città in cui si fondono con estrema disinvoltura eleganza ed informalità, città cosmopolita, raffinata, moderna e vivace, città come poche altre al mondo, che meriterebbe senza dubbio una visita più approfondita e da cui non vorrei già separarmi. Così, mentre il nostro viaggio deve però inevitabilmente proseguire e domani atterreremo nel Red Centre, ora alziamo in alto i bicchieri, guardando dapprima la magia prodotta  dalle mille luci dell’Harbour Bridge, ed in seguito soffermando lo sguardo sul profilo illuminato dell’Opera House. Brindiamo. Sì, brindiamo in onore del bistrattato architetto Utzon, perché va detto, senza di lui Sydney non sarebbe mai stata la stessa Sydney e questo, possibilmente, non dimentichiamolo mai. 

La terra è rossa.

Appena mezz’ora di volo, ed il paesaggio sottostante cambia radicalmente. L’aereo sorvola immense distese desertiche, che variano cromaticamente dall’arancio all’ocra. Tre ore circa dopo il decollo, atterriamo al piccolo Connellan Airport, ma dai finestrini avevo già chiaramente intravisto il mito. Sì, perché se abbiamo definito l’Opera House quale icona di Sydney per eccellenza, Ayers Rock, o meglio, Uluru, è presumibilmente il simbolo stesso dell’Australia, ed in vita mia, già a partire dai primi libri di scuola, avrò visto la sua imponente sagoma raffigurata migliaia di volte.

Patrizia e Valentina si occupano del ritiro dei bagagli, mentre io mi dirigo verso il banco della Trhifty, dove però non trovo nessuno. Un cartello scritto a penna indica di telefonare per contattare un operatore, e così mi ritrovo a parlare con una certa Gwendy, la quale mi dice che in cinque minuti al massimo sarà da me. Poco dopo, mi si presentano infatti due immense e statuarie gambe parzialmente coperte da un minuscolo pantaloncino in jeans, ed un prototipo della Barbie moderna dagli occhi di giada mi saluta energicamente con un sorriso sfolgorante, controlla la mia prenotazione e stampa il relativo contratto di noleggio. Spiegandomene il significato, mi indica ogni volta i vari punti in cui apporre la firma, dicendo “OK?” e sorridendo con i suoi cinquecentomila bianchissimi denti. Firmo il contratto, ma lo confesso, in questo momento potrei anche firmare una cambiale senza accorgermene… che Dio benedica l’Australia e le sue splendide creature!

La nostra auto si trova proprio fuori l’uscita, ed il seggiolino per Valentina è in terra, capovolto, come buttato lì per caso. Mentre sistemo i bagagli, mi prude costantemente il viso. Poso un borsone, mi gratto, ma continua a prudermi, introduco una valigia, mi gratto, ma niente, che palle ragazzi, avverto sempre più fastidio. Scoprirò presto che non si trattava di prurito, quanto di un paio delle migliaia di onnipresenti, fastidiose ed appiccicosissime mosche, che caratterizzeranno il nostro viaggio nel Northern Territory australiano. Finalmente siamo però a bordo, direzione Yulara, dove prendiamo rapidamente possesso della nostra camera, smaniosi di dirigerci alla volta del grandioso monolito, distante una ventina di chilometri. Uluru si materializza improvvisamente sulla strada, delineandosi sempre più nitidamente dopo la Park Entry Station, dove sborsiamo 25 dollari australiani a testa, per un permesso valido tre giorni. La nostra prima tappa è il Cultural Centre, la cui particolare forma è ispirata nelle linee a Kuniya e Liru, i due serpenti ancestrali della mitologia Anangu. Qui, per volontà dei legittimi proprietari, vige il divieto assoluto di fotografare. Dal 1985 il parco nazionale di Uluru – Kata Tjuta è stato restituito dal governo australiano agli originali possessori, gli Anangu, pur mantenendone la gestione per 99 anni. Il centro culturale fornisce ai visitatori varie informazioni sulla cultura Anangu e, tramite delle fotografie, numerosi pannelli audiovisivi, esposizioni scritte in più lingue e video, i viaggiatori vengono introdotti ai principi fondamentali della Tjukurpa, di cui riporto di seguito testualmente alcuni passi esposti, al fine di rendere parzialmente un’idea sui contenuti della stessa, nonché sul grande significato religioso che gli Anangu attribuiscono ad Uluru:


“La legge Tjukurpa costituisce il fondamento della cultura Anangu. Essa stabilisce le regole per il comportamento e il vivere comune. E’ la legge che impone il rispetto tra le persone e tra queste e la terra che dà sostentamento alla gente. La legge Tjukurpa, che risale all’epoca della creazione, continua a disciplinare i rapporti al giorno d’oggi. La legge Tjukurpa regola i rapporti tra persone, piante, animali e le caratteristiche fisiche della terra. La stessa legge offre spiegazioni sulla formazione, sul significato e sulla conservazione di tali rapporti. La legge Tjukurpa è stata tradotta come “Dreaming” o “Dreamtime”, ossia come “Tempo dei sogni”. Tale traduzione però è invero inesatta, poiché la Tjukurpa non si riferisce ai sogni secondo il significato tradizionale della cultura occidentale; non si tratta di un fenomeno irreale o immaginario. La Tjukurpa è la legge tradizionale che spiega l’esistenza e disciplina la vita quotidiana. La Tjukurpa racchiude in sé stessa il concetto dell’esistenza, nel passato, il presente e il futuro.  La Tjukurpa dà una risposta a importanti quesiti quali la creazione del mondo e il modo in cui gli esseri umani e tutti quelli viventi si inquadrano nel concetto globale della vita. Essa forma la base di tutte le leggi che governano la natura e tutti gli esseri viventi. La Tjukurpa è tutta attorno a noi nel paesaggio stesso. Quando gli Anangu osservano la terra, e ogni sua caratteristica, e tutte le sue creature, essi vedono i segni della presenza vivente degli antenati. Uluru e le sue molte caratteristiche, continuano a raccontarci della Tjukurpa. In principio, il mondo era privo di forma e fisionomia. Esseri atavici emersero da questo vuoto e viaggiarono in lungo e in largo, creando tutte le specie viventi e le caratteristiche del paesaggio desertico che vediamo oggigiorno. Uluru e Kata Tjuta offrono una prova fisica delle attività e dei viaggi degli esseri atavici che vengono tramandati sin da allora, nella storia, canti, danze e cerimoniali. La conoscenza del modo in cui prendersi cura della terra, animali piante e genti è stata tramandata da generazione a generazione sotto forma di Tjukurpa, la legge, cioè, degli Anangu. Uluru e Kata Tjuta fanno parte di una grande rete di luoghi importanti, collegati l’uno con l’altro da iwara (sentieri), formati da diversi antenati durante i loro viaggi. In tutte le direzioni, Uluru e Kata Tjuta sono collegati con persone e luoghi. Le pianure di sabbia e le zone boscose del parco e oltre sono piene di segni dei viaggi degli antenati.”


Il posto suscita grandissimo rispetto, ed è quasi d’obbligo girare tra le sue stanze nel silenzio più assoluto, in una sorta di raccoglimento spirituale e con una conseguente contemplazione sul significato di quanto si sta apprendendo. Percepisco però nello stesso tempo anche un senso di vuoto, dovuto più che altro alla mancanza fisica degli aborigeni nel loro centro culturale, presieduto invece dagli onnipresenti rangers australiani. Sì, perché malgrado sia scritto un po’ ovunque che gli Anangu collaborano strettamente con l’ANCA (Australian Nature Conservation Agency) per amministrare Uluru, va anche detto che, pur trovandosi di fatto in territorio aborigeno, nel parco, il visitatore entra poco in contatto con gli Anangu, a meno che non partecipi alle loro escursioni, comunque sempre parzialmente gestite da bianchi australiani, che si occupano per loro conto delle prenotazioni presso gli uffici dell’Ayers Rock Resort, e dei trasporti. Sarà forse un caso, ma durante l’arco della nostra visita, nel parco stesso non incontreremo nessun ranger aborigeno, come invece si verificherà tra qualche giorno in altri parchi nazionali del Top End. Insomma, questa netta prevalenza di bianchi australiani, secondo me stona con la sacralità del luogo in cui ci troviamo, e questi 99 anni di gestione mi appaiono altresì molto come 99 anni di ulteriore sfruttamento, ora, soprattutto anche dell’immagine.

Dopo un paio d’ore ben spese nel Cultural Centre, raggiungiamo il parcheggio del Mutitjulu Walk, teatro di un’epica battaglia tra i sopraccitati Kuniya e Liru, ed iniziamo la nostra passeggiata lunga circa un chilometro alla base del monolito, che da vicino presenta una configurazione molto particolare, essendo la sua forma notevolmente diversificata, costituita da varie montagnole che si intersecano tra loro, rocce frastagliate che si alternano a profili tondeggianti, anfratti, speroni rocciosi più o meno aguzzi, piccole caverne disseminate in ordine sparso, e poi, ancora tratti in cui la vegetazione cresce anche sulla parte inferiore della roccia, altri  in cui invece si avvicendano alberi a spoglie porzioni di terreno rosso, dove trovano spazio unicamente piccole steppe sparse di spinifex. Tutt’intorno regna un silenzio irreale, interrotto unicamente dal rumore del vento. Il sentiero termina presso il Mutitjulu Waterhole, stagno permanente alla base del monolito, secondo le cui leggende rappresenta la casa di Wanampi, un serpente d’acqua ancestrale. Ci troviamo per un po’ in completa solitudine, immersi nella magia di questo posto davvero unico. Proseguiamo in seguito lungo una parte del sentiero di circa nove chilometri, che compie il periplo del monolito, dopodiché torniamo indietro, avviandoci verso il parcheggio, senza poter fare a meno di constatare il continuo cambio di colori a cui è soggetto Uluru, grazie anche all’alternarsi di zone ombrose, ad altre illuminate dal sole. Una mezz’ora prima del tramonto, siamo posteggiati sull’apposito lookout in compagnia di numerosi altri visitatori, comunque per la maggior parte australiani, ed è simpatico vederli dapprima apparecchiare i propri tavolini pieghevoli in direzione del monolito, quindi tirar fuori scintillanti calici e relative bottiglie di vino, in questo angolo di deserto rosso. Ma l’attenzione è ovviamente tutta dedicata ad Uluru, che muta  continuamente colore, fino quasi ad infiammarsi di rosso, suscitando varie esclamazioni di stupore da parte dei tanti visitatori presenti.

Lo si percepisce, è giustamente un luogo sacro, e dovrebbe esserlo per tutti.

Il giorno successivo, sotto un sole splendente torniamo ancora al monolito, posteggiando la macchina presso il parcheggio del Mala Walk. Iniziamo dunque la nostra passeggiata, non potendo però fare a meno di soffermarci qualche istante dinnanzi al triste spettacolo, a cui loro malgrado assistono i nostri occhi. Ho sempre pensato che tra tutti gli esseri viventi, l’uomo sia il peggiore e vedere quest’oggi scalare Uluru da parte di numerosi visitatori, non può sfortunatamente che confermare il mio triste pensiero. Non ha senso venire in questo angolo desertico del centro Australia per visitare Uluru, e poi scalarlo. No, non ha alcun senso. Non ha senso compiere una piccola impresa di cui vantarsi, calpestando contestualmente il credo religioso di un popolo, già oltretutto vilipeso da anni di ingiustizie. E se ho spesso letto di pseudo viaggiatori che dopo la scalata hanno successivamente recitato il mea culpa, dicendo che non erano assurdamente a conoscenza della sacralità del luogo, oggi, capisco invece che hanno sempre mentito, al fine unico di giustificare il proprio egoismo, poiché, posizionato giusto all’inizio del sentiero che conduce in cima, un cartello scritto in varie lingue, tra cui l’italiano, recita testualmente: “Stai salendo su di un sito molto importante…. Non dovresti salirci. Salirci non rivela la vera importanza del sito. La cosa più importante è ascoltare tutto attorno… Questa è la cosa giusta da fare. Questa è la maniera giusta: non salire in cima.” Lo stesso cartello, poi, incita i viaggiatori a non rischiare la propria vita tentando la scalata. Già, perché oltretutto, ogni anno qualche visitatore muore colpito da infarto, od a seguito di qualche accidentale caduta. Tempo addietro erano state anche piantate delle croci per commemorare le vittime, ma furono successivamente tolte, perché se dicevamo che l’uomo è il peggiore tra tutti gli esseri viventi, probabilmente il turista incarna la peggior specie tra gli uomini. Infatti, prima di iniziare la scalata su Uluru, molti amavano addirittura farsi fotografare davanti alle croci… e perdonatemi davvero se a questo punto, non me la sento di aggiungere altro in merito.

Il nostro percorso è estremamente piacevole e si snoda attraverso scenari naturali di incredibile bellezza, in cui la roccia del monolito, quest’oggi di un inverosimile arancione acceso, contrasta nettamente con il verde della vegetazione circostante, ed il cielo terso. Il Mala Walk è lungo due chilometri, ed offre al visitatore diversi punti interessanti in cui soffermarsi, come ad esempio delle pregevoli gallerie d’arte rupestre. Lungo il tragitto sono disseminate varie zone sacre in cui è vietato entrare, così come, in differenti aeree, vige anche il divieto di fotografare. Il nome Mala indica l’Hare-Wallaby, un piccolo marsupiale ritenuto sacro dagli aborigeni locali, e questo sentiero si dirama appunto attraverso alcuni luoghi un tempo abitati dai Mala, dove, secondo le leggende Anangu, è possibile ammirare i segni della creazione da parte di questi esseri ancestrali. Avvicinandosi al Kantju Waterhole, troviamo una splendida panchina in legno intarsiato, su cui ci soffermiamo un po’ di tempo, godendo di un’incredibile quiete. Considerata l’importanza religiosa del punto in cui ci troviamo, su esplicita richiesta degli Anangu, che per anni hanno effettuato questo percorso per raccogliere l’acqua dalla vicina pozza naturale, bisognerebbe rimanere in assoluto silenzio, ascoltando unicamente il rumore del vento che bisbiglia attraverso gli alberi. Mi colpisce particolarmente una frase, in cui si sostiene che il visitatore è privilegiato a trovarsi in questo posto, e pertanto gli si raccomanda di camminare in silenzio, rispettando la sacralità del luogo. Osservo la roccia di Uluru attraverso gli alberi, poi guardo Valentina e Patrizia e respiro a pieni polmoni il vento a cui vorrei urlare la mia gioia e la mia commozione.

Sì, lo ammetto, a volte mi considero un privilegiato.

Nel pomeriggio abbiamo un primo assaggio di vero outback, coprendo i 50 chilometri che ci separano dai Kata Tjuta (molte teste), che vediamo dapprima dall’apposito lookout ubicato lungo la strada, dove si riesce ad avere un’ottima visione in lontananza delle 36 massicce cupole in arenaria, chiamate Olgas nella seconda metà del diciannovesimo secolo dall’esploratore Ernest Giles, in onore della regina Olga di Wurttemburg. Sembra quasi superfluo sottolinearlo, ma il posto è altamente spettacolare e mentre ci avviciniamo al parcheggio, dal cielo parzialmente coperto fuoriescono dei caldi raggi di sole che fanno incredibilmente brillare le rocce, che Giles descrisse nel suo rapporto come dei “minareti arrotondati, cupole giganti e a volte mostruose”.

Valentina inizia a dare segni di stanchezza, e tralasciamo dunque l’impegnativa “Valley of the Winds”, un percorso lungo 7,4 chilometri, a favore del Walpa Gorge Walk, sentiero che si snoda per oltre due chilometri e mezzo attraverso una stretta gola dalle alte pareti, che sembrano quasi divertirsi a cambiar colore man mano che andiamo avanti, fino a raggiungere una pozza d’acqua parzialmente prosciugata. Purtroppo il cielo nuvoloso ci impedisce di assistere allo spettacolo del tramonto infuocato sui Kata Tjuta, e mentre percorriamo i 50 chilometri a ritroso verso l’Ayers Rock Resort, improvvisamente cala il buio.

Domani lasceremo Uluru, questo posto così importante dal punto di vista religioso per le comunità locali, e da occidentale mi rendo conto di non esser riuscito a percepire pienamente la sua grande sacralità, né tanto meno di averlo descritto in queste righe come avrei voluto, perché credo che solo vedendolo di persona, osservandone il continuo mutamento cromatico che lo contraddistingue, visitando il Cultural Centre degli Anangu, leggendo sul posto qualcosa sulla Tjukurpa, e percorrendo alla sua base i sentieri in terra battuta intrisi di leggende, ed abitati da personaggi ancestrali, si potrà forse capire cos’è realmente Uluru. Forse.


 Cifre, e sono davvero incredibili quelle fornite dall’Ente Turistico del Northern Territory, che riporto testualmente:


Un terzo della popolazione del Northern Territory è di origine aborigena.

Il Northern Territory è per il 95% di proprietà degli aborigeni. Tutti possono visitare le zone più conosciute, ma per alcune località e regioni può essere necessario un permesso.

Nel Northern Territory ci sono ben 21 parchi nazionali.

Nel Northern Territory vivono circa 400 specie di uccelli, 150 specie di mammiferi, 300 specie di rettili, 50 specie di rane, 60 specie di pesci d’acqua dolce e diverse centinaia di specie di pesci marini. Alcuni di questi uccelli ed animali vivono esclusivamente nel Northern Territory, principalmente ad Arnhem Land e nella zona di Kakadu.

Il Northern Territory si estende per circa 1.364.000 chilometri quadrati, vale a dire circa un sesto dell’Australia intera, e la sua popolazione conta appena 200.000 abitanti.

Il Northern Territory è grande quasi quanto Italia, Francia e Spagna messe insieme.


Mentre nel Northern Territory mi accingo a percorrere il primo dei 450 chilometri circa che separano Yulara da Alice Springs, confesso di non essermi mai sentito così piccolo in vita mia.

Una vecchia pubblicità dell’Australia diceva che è difficile dare una definizione di “outback”, ma una volta che vi si troverà nel mezzo, il viaggiatore potrà facilmente coglierne il significato. Dopo aver guidato per oltre un’ora senza aver incrociato una macchina, lungo uno strada che si perde perennemente all’orizzonte, la quale attraversa immense distese di rossicci territori desertici in cui  abbiamo intravisto appena un paio di canguri ed un dingo aggirarsi spauriti tra radi cespugli di spinifex, credo di aver intuito il senso di tale termine, ed il Northern Territory è probabilmente la patria dell’outback per antonomasia, tanto che, sulle targhe delle proprie automobili, è riportata in rosso proprio l’emblematica scritta “Northern Territory Outback Australia”.

La Lasseter Highway è un cimitero. Sì, un cimitero di 244 chilometri, lungo il quale si susseguono ripetutamente carcasse più o meno grandi di canguri investiti, e pneumatici squartati che hanno pesantemente pagato dazio all’outback, mentre il Monte Conner, che si staglia improvvisamente sulla nostra destra, sembra vagamente Uluru, sebbene il suo profilo sia più squadrato e rammenta geometricamente un enorme trapezio con la base piantata nel bush. Tre ore circa dopo aver lasciato l’Ayers Rock Resort, all’altezza di Erldunda imbocchiamo in direzione Alice Springs la mitica Stuart Highway, strada che attraversa l’Australia da Adelaide a Darwin, ed il cui nome rende onore all’esploratore scozzese John McDouall Stuart, che riuscì nella storica impresa di aprire questo passaggio da sud a nord. Lungo il percorso intravediamo dei  dromedari, che di fatto discordano in questo contesto paesaggistico, dove invece ti aspetti da un momento all’altro che un canguro ti tagli la strada, malgrado occorra dire che l’Australia sia l’unico paese al mondo dove i dromedari vivano attualmente allo stato brado. Furono infatti usati per trasportare materiali durante la costruzione della ferrovia che copriva il tratto da Adelaide ad Alice Springs, ma una volta terminati i lavori vennero lasciati liberi. Oggi, le stime parlano di circa centomila esemplari…

Poco dopo le tredici entriamo ad Alice Springs, la più grossa città del Central Australia, sempre ovviamente se possiamo definire città un agglomerato di basse case in cui vivono poco più di venticinquemila persone, ed una griglia di poche strade parallele in mezzo ai MacDonnel Ranges.

Originariamente, era solo una delle dodici stazioni presenti lungo il territorio australiano della linea telegrafica che, in partenza da Darwin, manteneva in contatto il paese con il resto del mondo tramite un cavo sottomarino, che arrivava a Giava. La stazione sorgeva presso un fiume a cui fu dato il nome di Todd, che all’epoca era il sovrintendente dei telegrafi, mentre le vicine sorgenti, appunto “springs”, presero il nome di sua moglie, Alice. Alice Springs, come venne in seguito chiamata, si è sviluppata solo nella seconda metà dello scorso secolo, tanto che, negli anni ’50, la sua popolazione era stimata appena attorno al migliaio di abitanti. Oggi è un importante tappa in cui fermarsi mentre si viaggia lungo la Stuart Highway, e presenta alcune attrattive degne di interesse, tra cui proprio la vecchia stazione del telegrafo, ma anche la sede del “Royal Flying Doctor Service”, che fornisce cure mediche “volanti” nelle aree remote del territorio, nonché inoltre la prima “Scuola dell’aria” nata in Australia, in cui si svolgono lezioni via radio per quei bambini che abitano nelle distanti fattorie dell’outback, od in altri luoghi solitari, dove non sorgono scuole. Dopo esserci sistemati in un motel ubicato vicino al Todd Mall, passeggiamo un po’ lungo il medesimo tratto pedonale, accomodandoci successivamente ad un tavolo all’aperto di uno dei tanti locali che lo occupano. Come avevamo notato sin dal nostro ingresso in città, ad Alice Springs la presenza degli aborigeni è rimarchevole, così come saltano subito agli occhi le disagevoli condizioni in cui vivono. Vediamo passare intere famiglie vestite di miseri cenci, con i bambini scalzi ed il moccolo al naso. Altri camminano senza una meta apparente, come tanti zombie, e con lo sguardo perso nel vuoto, mentre altri ancora sono palesemente ubriachi, e badate che non sto scrivendo di qualche caso isolato, ma di tante persone, sfortunatamente troppe, che non avrei mai voluto vedere ridotte in questo stato. Quello che però più mi colpisce, è la netta separazione tra bianchi ed aborigeni, che sembrano vivere in due mondi paralleli nella stessa città, ignorandosi reciprocamente. Nei vari negozi non ci sono commessi di origine aborigena, in banca non ci sono cassieri aborigeni, così come nei supermercati, nelle reception degli alberghi, presso le compagnie di autonoleggio, nelle gallerie d’arte. Loro sembrano non far parte della vita quotidiana di Alice Springs, eppure sono qui, vivono e circolano a decine sulle strade di questa cittadina dell’Australia Centrale. Quattro anni fa, lasciando il Queensland annotai sul mio diario: “Parto dall’Australia con il grande desiderio di tornarci, ma, nonostante le innumerevoli bellezze viste, lascio questo paese con l’amaro in bocca e con un sottile velo di tristezza, dovuto ad alcune infelici impressioni ricavate dal punto di vista sociale”. Oggi, a distanza di quattro anni, seduto ad un tavolo nel bel mezzo della stessa Australia, percepisco purtroppo quelle medesime impressioni, e le avverto ancor più negative, tanto che mi fanno star davvero male, perché rappresentano una grossa stonatura in un paese che sto sempre più amando. Stonatura, o meglio ancora ingiustizia, che non comprendo, né tanto meno accetto, e mi tornano in mente tutti quei dati raccapriccianti che all’epoca avevo raccolto e scritto circa gli originari abitanti dell’Australia, che solo nel recente 1967 hanno ottenuto la cittadinanza, nonché diritti civili e di voto. Mi vengono in mente quelle spaventose statistiche, che dicono che le speranze di vita di un aborigeno sono di circa 20 anni inferiori rispetto agli altri. Quelle statistiche che dicono ancora che il 90% di loro è analfabeta, ed il 90% dei carcerati australiani è nero, che le mortalità infantili sono largamente diffuse tra gli aborigeni e praticamente inesistenti tra gli alti abitanti, che le loro malattie, prevalentemente dovute ad un’errata alimentazione e, soprattutto all’alcol, sono praticamente infinite, così come non posso far a meno di pensare che l’Australia è il solo paese sviluppato a trovarsi ai primi posti nel mondo per l’incidenza del tracoma, malattia infettiva che porta alla perforazione della cornea ed alla conseguente cecità, tracoma che, è inutile dirlo, è diffuso quasi esclusivamente tra gli aborigeni. D’accordo, non tutti gli aborigeni vivono così, fortunatamente alcuni abitano in zone remote, al di fuori delle comuni rotte turistiche e lontano anche dagli stessi bianchi australiani, conducendo una vita più o meno simile a quella dei loro antenati, altri hanno provato ad organizzarsi promulgando la loro cultura, facendo udire la propria voce, producendo e vendendo pregevoli oggetti d’artigianato, tuttavia in molti, purtroppo davvero troppi, sono ancora toccati da vicino da quelle spaventose statistiche, e questa palese separazione razziale, che risulta così evidente nelle cittadine dove fanno parte integrante del tessuto sociale, come appunto Alice Springs o la stessa Katherine a nord, in cui ci recheremo tra qualche giorno, rende ancor più incomprensibile quell’atroce e cinico “esperimento sociale” effettuato tra il 1918 ed il 1970 dai vari governi australiani, noto con il nome di “Stolen Generation”, la generazione rubata. Un numero stimabile attorno ai 100.000 bambini vennero sottratti con la forza alle proprie famiglie, inviati in centri di assistenza statali, o dati in affidamento a nuclei familiari distanti centinaia di chilometri dalle proprie case. Lo scopo era quello di far integrare questi bambini nella cosiddetta “civiltà”, allontanandoli dalla povertà e dalle situazioni di disagio, a cui sarebbero inevitabilmente andati incontro, crescendo da…aborigeni. Nella maggior parte dei casi quei bambini ricevettero un’istruzione sommaria, oltre a vari maltrattamenti fisici e psicologici, che spesso li indussero a fuggire provando a trovare la via di casa, a sfociare nell’alcolismo, od a tentare il suicidio. Si tratta di un’orribile e vergognosa macchia nella recentissima storia australiana e nella stessa storia dell’umanità.

Quest’oggi, nelle numerose gallerie d’arte di Alice Springs, alcune tele aborigene vengono vendute anche per diverse decine di migliaia di dollari australiani. Qualche facoltoso turista le acquisterà, arredando con una vera opera d’arte la propria casa, che gli ricorderà per sempre l’Australia, sì, perché, bellezze naturalistiche a parte, la cultura aborigena rappresenta l’altra grande attrazione di questo immenso ed affascinante paese. Fuori dagli stessi negozi, lungo la strada, decine di bambini aborigeni vestiti con pochi sporchi abiti consunti, camminano e continueranno invece a camminare scalzi alla ricerca di un futuro diverso, che probabilmente non avranno mai.


Il Top End ci accoglie con un gran sole e con temperature decisamente più consone alla nostra estate. Finalmente, aggiungerei con un pizzico di sincerità. Il tragitto che va dall’aeroporto al centro di Darwin è un continuo susseguirsi di autoconcessionari, ne contiamo a decine, e questo ci sembra quantomeno strano, considerata la scarsa popolazione del Northern Territory. Ci immergiamo subito nelle centrali Mitchell e Smith Street, le quali mi ricordano molto Cairns per i tanti negozi rivolti fondamentalmente ai turisti, ma anche per i molti ostelli e l’avvicendarsi degli innumerevoli internet point. In giro c’è pochissima gente, ed una plausibile spiegazione comunque esiste, considerato che siamo nel tardo pomeriggio e che oggi è giovedì, giorno in cui tradizionalmente si tiene il Mindil Beach Sunset Market, che raggiungiamo subito dopo, stentando non poco a trovar posto nell’affollatissimo parcheggio. Sì, perché questo animato mercato è un’autentica istituzione per gli abitanti di Darwin, che si ritrovano numerosi in spiaggia il giovedì e la domenica pomeriggio durante la stagione secca, ad ammirare un tramonto infuocato. Portano da casa i propri tavolini e sdraie pieghevoli, accomodandosi in attesa che il sole si addormenti nel mare e consumando contestualmente qualche buon piatto acquistato in una delle sessanta bancarelle di cibo presenti, che svariano dalle innumerevoli pietanze asiatiche che spargono nell’aria densi profumi d’oriente, alla pizza, dalle ostriche alle esotiche carni locali grigliate, come coccodrillo, emu o canguro. Oltre alle bancarelle gastronomiche, nel viale ubicato sotto le palme ce ne sono altre duecento circa, che vendono oggetti d’artigianato, bigiotteria, libri, cappelli, e molto altro ancora. Nonostante la ressa, è davvero ammirevole la tranquillità di queste persone. Qui ognuno ha il suo bel piatto di noodles, una birra ghiacciata, un tramonto tropicale da ammirare con palese soddisfazione, e si ritrova visibilmente in pace con il mondo intero.

Il giorno seguente lasciamo Darwin, che ritroveremo tra una settimana, ed alle otto in punto siamo già sulla Stuart Highway. Dodici minuti dopo, alla mia macchina verrà scattata una simpatica fotografia, ed in Italia riceverò una bella cartolina ricordo da parte del dipartimento di giustizia del Northern Territory, in cui mi inviteranno a pagare cento dollari australiani, per aver superato di quindici chilometri orari il limite di velocità. Nulla da eccepire, purtroppo. In breve lasciamo questa strada, quest’oggi parzialmente intasata dai road trains, giganteschi camion a cui sono attaccati svariati dogs, letteralmente cani, e di fatto rimorchi, che fanno raggiungere a questi treni della strada anche lunghezze vicine ai cinquanta metri. Imbocchiamo l’Arnhem Highway, strada che, in grosso modo 260 chilometri, ci condurrà a Jabiru, nel Kakadu National Park. Se l’arteria che attraversa il paese da nord a sud era abbastanza trafficata, quest’ultima è sostanzialmente deserta, eccezion fatta per qualche wallabies, che durante il tragitto si diverte a saltellarci vicino in svariate occasioni, con relativa nostra soddisfazione, of course, in fondo siamo in Australia, no? Un cartello colorato indica la nostra prima tappa odierna, e così svoltiamo a sinistra, percorrendo per qualche chilometro una stretta e polverosa strada sterrata. Siamo in prossimità dell’Adelaide River e qui si trova una delle maggiori attrattive del circondario, il “jumping crocodile”. Il nome può far pensare a qualche classica trappola “acchiappaturisti”, dove tutto è stato creato a regola d’arte per compiacerli, mettendo in scena qualche spettacolo artificiale, ma in realtà, terminata la strada, qui troviamo solo una casetta in legno da cui fuoriesce musica country che funge da biglietteria, ed un grosso barcone dal fondo piatto, che alle nove in punto salpa verso il centro del limaccioso fiume. L’Adelaide River ospita una delle più grosse concentrazioni d’Australia di coccodrilli estuarini, familiarmente chiamati “saltie”, che avvistiamo in quantità industriale pochi secondi dopo. Infatti, si resta davvero impressionati dall’ingente numero di questi grossi rettili, ed in breve tempo le iniziali esclamazioni di stupore dovute al loro costante avvistamento, lasciano il posto ad una più semplice presa di coscienza di trovarsi nel loro habitat,  e ci si rende dunque conto che costituiscono parte integrante del contesto paesaggistico in cui siamo. Ma l’attrattiva della crociera consiste nel gettargli dei grossi pezzi di carne legati a delle funi, e vederli con impeto saltar verticalmente fuori dall’acqua per afferrarla. Un autentico spettacolo, considerata soprattutto l’immensa mole che li caratterizza e quelle gigantesche fauci, che vediamo spalancarsi ad un paio di metri al massimo da noi.

Nel primo pomeriggio arriviamo a Jabiru, sistemandoci all’Holiday Inn Gagudju Crocodile, particolare hotel dalla forma di coccodrillo che, aldilà di un’elegante hall dalla temperatura polare, è di fatto comunque strutturato come un classico motel, con i parcheggi ubicati quasi a ridosso delle essenziali camere. Ci troviamo nel Kakadu National Park, costituito da ventimila chilometri quadrati di natura allo stato puro, ed inserito dal 1981 nella World Heritage List dell’Unesco. Le cifre inerenti il parco sono sbalorditive, annoverando al suo interno qualcosa come 60 specie differenti di mammiferi, tra cui svariati tipi di marsupiali, circa 280 specie di uccelli, 117 specie di rettili nei quali sono stati censiti pressappoco 3.500 coccodrilli estuarini, 53 razze diverse di pesci, più di 10.000 tipi di insetti, oltre 1700 specie di piante diverse, oltre a più di 5.000 siti di arte rupestre aborigena, la maggior parte dei quali chiusi ai visitatori, in quanto considerati sacri dalle comunità locali. Il suo nome deriva proprio dal termine aborigeno Gagudju e gli aborigeni sono i proprietari di queste terre, date in gestione al governo australiano per amministrarle come parco nazionale. All’interno del Kakadu vedremo diversi rangers aborigeni, a partire proprio dal Bowali Visitor Centre, dove ci rechiamo subito dopo aver sistemato i nostri bagagli in camera. In questo esaustivo centro informativo, dove è possibile reperire svariate mappe e numeroso materiale illustrato, tramite un percorso esplicativo e dei video si viene introdotti alle numerose attrattive del parco. I rangers sono a disposizione per qualsiasi informazione necessiti, ed inoltre vengono costantemente aggiornate le condizioni delle strade. Qui apprendiamo che le Jim Jim Falls, uno dei principali luoghi d’interesse del parco sono sostanzialmente asciutte e rinunciamo quindi a priori alla loro visita, anche se in verità eravamo parzialmente preparatati a questo, trovandoci nella cosiddetta “dry season”. Restiamo un po’ di tempo nel centro, ed in seguito torniamo indietro sull’Arnhem Highway, deviando qualche chilometro dopo sulla destra, in direzione di Ubirr, centro spirituale aborigeno ricco di pittogrammi, che raggiungiamo dopo 39 chilometri, guidando in completa solitudine. Una volta parcheggiato, ci addentriamo rapidamente attraverso un sentiero circolare della lunghezza di un chilometro circa che, snodandosi in un paesaggio costituito da alberi, terra rossa, rocce e fitta vegetazione secca, ci conduce presso i vari siti in cui sono presenti diverse raffigurazioni d’arte rupestre appartenenti a varie epoche, le più antiche delle quali risalgono addirittura a ventimila anni fa. Lungo il tragitto, fuoriescono spesso vari rumori dalla boscaglia circostante e mentre ci aspettiamo di  veder saltare fuori qualche canguro, restiamo invece sorpresi nello scorgere diversi strani e grossi uccelli, ma raggiungendo invece quella che viene chiamata la “main gallery”, quando stiamo arrampicandoci sulle rocce per ammirare le pitture rupestri, sopra di noi, a gran velocità, saltella inaspettatamente un grosso wallaby, disperdendosi rapidamente nella circostante vegetazione. Ci inerpichiamo in seguito fino al “Nardab Lookout”, una sorta di tavolato roccioso da cui si gode di una meravigliosa vista su Ubirr e sulla scarpata dell’Arnhemland. Qui aspettiamo che il sole scivoli lentamente sulle wetlands, mentre tutt’intorno regna una straordinaria quiete.

Il mattino successivo, dopo aver percorso una cinquantina di chilometri lungo una deserta Kakadu Highway, alle nove in punto siamo già presso l’imbarcadero dello Yellow Water Billabong, ubicato  alla confluenza del South Alligator River e del Jim Jim Creek. Salpiamo a bordo di un barcone dal fondo piatto, effettuando una crociera di un paio d’ore attraverso questa grossa palude orlata da vegetazione. Poco oltre il punto d’imbarco, quasi a volerci dare il benvenuto, un grosso coccodrillo estuarino nuota semisommerso placidamente, facendo appena intravedere la sua robusta corazza, che fuoriesce parzialmente dall’acqua. La giornata è meravigliosa, ed un cielo azzurrissimo si specchia lungo i canali, sulle cui sponde, nemmeno stessimo guardando un documentario del National Geographic, ammiriamo comodamente numerose specie di uccelli acquatici, un grosso esemplare di serpente, gli immancabili ed ormai direi familiari “saltie”, autentici protagonisti e signori incontrastati di questo ambiente selvaggio, ma anche animali che francamente non ci aspettavamo di osservare, come bufali e cavalli ovviamente non originari del posto, ma riprodottisi negli anni allo stato brado. Si tratta dell’ennesimo sensazionale spettacolo, che la stupefacente natura del Northern Territory ci sta regalando. Terminata la piacevole escursione, facciamo rifornimento presso il Gagudju Lodge di Cooinda, ed in seguito trascorriamo un po’ di tempo al Warradjan Cultural Centre, leggendo affascinanti storie sulla creazione secondo la mitologia degli aborigeni locali e vedendo delle interessanti proiezioni inerenti le stesse comunità del posto. Tornando per una breve sosta al nostro hotel, troviamo inaspettatamente in camera un agghiacciante messaggio, in cui la direzione avverte gli ospiti che, a seguito comunicazione del corpo forestale, l’acqua del parco risulta contaminata e pertanto occorre strettamente evitare ogni contatto con la stessa. Solo ora capiamo perché, quest’oggi, la piscina è così insolitamente affollata. Per fortuna a Darwin avevamo acquistato una tanica d’acqua da trenta litri, al fine di usarla proprio in caso di necessità nel corso del viaggio, anche se mai avremmo potuto immaginare un simile evento. Partiamo nel primo pomeriggio alla volta di Nourlangie, che raggiungiamo dopo una trentina di chilometri. Si tratta di uno dei siti d’arte rupestre più importanti dell’intera Australia, dove troviamo i celebri pittogrammi raffiguranti ancestrali personaggi dai nomi per noi impronunciabili come Namarrgon, Namondjok, Barrginj e Nabulwinjbulwinj, che abbiamo visto tante volte riprodotti su molti testi. Lasciato il parcheggio, iniziamo il nostro percorso attraverso un sentiero che si snoda in una fitta boscaglia, con l’assillo costante delle mosche, che qui sono davvero insopportabili, tanto che ci pentiamo presto amaramente di non aver acquistato delle retine appositamente confezionate per proteggere il viso. Sì, perché occorre davvero dire che se le mosche sono state finora un po’ una costante nel Northern Territory, qui a Nourlangie, perlomeno oggi, rappresentano un vero e proprio flagello. La nostra prima deviazione sulla sinistra è rappresentata dall’Anbangbang Shelter, una galleria naturale usata nei secoli come rifugio dai clan aborigeni dei Warramal e dai vicini Badmardi, nella quale è possibile ammirare pitture risalenti ad oltre ventimila anni fa. Seguendo il medesimo sentiero, il quale si inerpica per lievi tratti attraverso delle rocce, ci spostiamo assieme al nostro personale gruppetto di mosche fino al Gunwarddhwarde Lookout, da cui godiamo di un magnifico panorama del sottostante bush, che si allunga fino all’Arnhemland, territorio aborigeno grande quasi un terzo dell’Italia, il cui ingresso ai visitatori è strettamente vincolato a speciali permessi. Sopra di noi, maestosa, si innalza la grande rossa rupe in arenaria di Nourlangie, che conferisce realmente al posto un non so che di mistico, malgrado le onnipresenti mosche ci riportano invece presto alla realtà.

L’indomani, di buon mattino lasciamo il Kakadu, parco in cui si potrebbe stazionare svariati giorni vedendo sempre cose diverse, e ci dirigiamo a sud, lungo la Kakadu Highway. Attorno alle nove, avendo già guidato per circa 160 chilometri, sostiamo presso la Maryriver Roadhouse, spartana stazione di servizio dove sembra non esserci nessuno, tranne il solito nugolo di mosche che probabilmente aspettavano impazienti dei visitatori, e due simpatici wallabies che, a differenza delle stesse mosche, non appena apriamo le portiere dell’auto, si dileguano con pochi balzi nella boscaglia circostante. Con un sottofondo di musica country, un barbuto e scalzo omaccione sulla cinquantina ci serve delle uova fritte con bacon, che probabilmente a causa del contesto in cui ci troviamo, o più semplicemente per una questione di pura fame, ci sembrano particolarmente deliziose. Riprendiamo la nostra marcia e dopo aver imboccato all’altezza di Pine Creek la Stuart Highway in direzione sud, poco più di due ore dopo arriviamo a Katherine, sonnolenta cittadina del Northern Territory abitata da circa settemila anime, che attraversiamo nel tratto iniziale, svoltando in seguito a sinistra sulla Giles Street, su cui transitiamo per una trentina di chilometri attraverso il bush. Quando sono appena le undici, ed abbiamo già percorso da stamattina quasi trecentocinquanta chilometri, arriviamo al Nitmiluk National Park, dove prenotiamo una crociera di quattro ore in partenza alle tredici. Trascorriamo un po’ di tempo nel visitor centre, apprendendo qualcosa sulla storia del parco nazionale e sulla comunità degli Jawoyn, gli originari possessori di queste terre. Poco dopo le tredici, il barcone inizia a navigare lungo la prima delle tredici gole rocciose scavate dal fiume Katherine, che costituiscono parte integrante di questo parco nazionale di circa tremila chilometri quadrati, in questo punto più comunemente chiamato Katherine Gorge. Lo scenario, caratterizzato da lunghi canyon sovrastati dalle rossastre rocce alte fino a sessanta metri, è altamente suggestivo, e sono molti i visitatori che percorrono qualcuna delle gole in canoa. Alla fine della prima, un sentiero attraverso delle rocce conduce a delle gallerie di arte rupestre, presso le quali ci soffermiamo un po’ di tempo prima di cambiare battello, ed iniziare la navigazione della seconda gola. Il silenzio è irreale. Si susseguono varie spiaggette ai margini delle grandi formazioni rocciose, ed in numerosi punti, alcuni emblematici cartelli vietano espressamente lo sbarco dei turisti a causa della nutrita presenza dei coccodrilli di acqua dolce, localmente chiamati “freshie”, i quali superano raramente i tre metri di lunghezza, e che a differenza dei cugini estuarini non costituiscono generalmente un pericolo per l’uomo, se non espressamente provocati. Nel corso della navigazione ne scorgiamo diversi e ci appaiono davvero incuranti di tutto, crogiolandosi tranquillamente al sole. La fine della seconda gola è notevolmente spettacolare. Il fiume Katherine si perde a vista d’occhio in mezzo alle due alte pareti rocciose, parzialmente coperte nella parte bassa da vegetazione, mentre il color arancio delle stesse, fatto brillare dal caldo e basso sole pomeridiano, si riflette nel blu intenso del fiume. Nuovo cambio di barcone e successiva navigazione nella terza gola, l’ultima contemplata dal nostro giro, dopodiché torniamo indietro, ripetendo l’operazione fino a quella iniziale. Qui, presso un banco di sabbia ai margini del fiume ci arrestiamo, e dopo mille rassicurazioni sulla tranquillità del posto da parte della guida, possiamo concederci un tonificante bagno della durata di una buona mezz’ora. Mi allontano, nuotando per un po’ in solitudine lungo l’attigua sponda, e proprio mentre stavo godendomi in pieno relax l’incredibile tranquillità di questo magico posto, vengo richiamato dalle insistenti grida di Patrizia e degli altri partecipanti all’escursione. D’accordo, sarà anche non aggressivo, ma scorgendo dapprima nell’acqua la sua lunga sagoma corazzata, e realizzando in seguito che si trova a poco meno di quindici metri da me, francamente mi si gela il sangue nelle vene, e considerato che non mi sono mai sentito nemmeno lontanamente parente di Johnny Weissmuller, decido di battere prontamente in ritirata e guadagnare precipitosamente la riva.

Sulla via del ritorno, mentre percorriamo il sentiero che conduce al visitor centre, incontriamo un gruppo di canguri che, vinta la normale diffidenza iniziale, e mantenendosi comunque pur sempre ad una dovuta distanza, si lasciano parzialmente avvicinare da Valentina. Restiamo compiaciuti ad osservarli in silenzio, assieme ad una famigliola locale, di cui facciamo in seguito la conoscenza. Amano spesso trascorrere qui il tardo pomeriggio, in compagnia proprio dei canguri, che a quanto sembra, sono di casa. Questo piacevole quanto inatteso incontro, ha suggellato nel migliore dei modi questa intensa giornata, trascorsa a stretto contatto con le meraviglie naturalistiche del Northern Territory. La sera ceniamo presso lo Shangai Chinese Restaurant di Katherine, un piccolo locale che ha i tavoli all’aperto proprio sulla Stuart Highway, dove ci accomodiamo dopo aver acquistato qualche birra presso un vicino bottle shop. Tra un saporito fried rice, ed un ringhioso road train, che transita impetuoso sulla strada, non possiamo far a meno di notare anche le decine di aborigeni che stazionano ubriachi lungo l’aiuola che funge da spartitraffico, e questo triste spettacolo, ancora una volta mi amareggia notevolmente.  

Le lancette dell’orologio non hanno ancora toccato le nove, quando abbiamo già percorso centodieci chilometri lungo la Stuart Highway, arrivando a Mataranka, località dove è stato ambientato da Jeannie Gunn uno dei classici della letteratura australiana, intitolato “We of the never never”, in cui viene narrata la dura vita dei pionieri aussie alla fine del diciannovesimo secolo. Svoltiamo a sinistra, raggiungendo per prime le Mataranka Bitter Springs. Sul posto non troviamo nessuno, ad eccezione di una famigliola di tedeschi che hanno trascorso qui la notte, e stanno preparandosi la colazione fuori dal proprio camper. Ci troviamo a ridosso dell’Elsey National Park, costituito da una porzione di foresta pluviale in pieno bush, nel quale scorrono i fiumi Waterhouse e Roper. Una piccola passeggiata attraverso una vegetazione tipicamente tropicale ci conduce alle piscine termali, che sono caratterizzate da una limpida acqua verde smeraldo, ma, soprattutto, da una temperatura costante attorno ai trentaquattro gradi. L’ambiente è quello tipico di un classico stagno, attorno a cui cresce una folta vegetazione costituita da piante, grossi alberi e fitte canne di bambù, ed effettivamente non invoglia molto ad immergersi, sebbene l’acqua sia un vero e proprio brodo e ci induca rapidamente a farci coraggio, beneficiando in completa solitudine di un eccezionale bagno mattutino in questa sorta di oasi in mezzo all’outback. Riprendiamo l’auto, raggiungendo in seguito le famose “thermal pool”, tappa quasi obbligata di tutti i viaggiatori che percorrono la Stuart Highway, dove arriviamo dopo aver attraversato il Mataranka Homestead. Qui l’ambiente è più curato rispetto alle “bitter springs”, malgrado la piscina naturale sorga ugualmente in un contesto naturalistico altamente spettacolare, costituito da una rigogliosa vegetazione. L’acqua, sempre sui trenta gradi, è incredibilmente trasparente e le numerose particelle di calcare disciolto le conferiscono un irreale color verde acceso. Si tratta veramente di un posto incredibile, dove trascorriamo gran parte della mattinata, in compagnia di qualche turista australiano. Percorriamo successivamente un sentiero all’interno del parco, il quale ci conduce a ridosso del Roper River, dove un perentorio cartello avverte i visitatori che lo stesso è abitato da coccodrilli d’acqua dolce. Vicino alla riva il fiume è particolarmente pulito e scorgiamo nitidamente numerosi pesci ed alcune simpatiche tartarughine. Riprendiamo quindi la Stuart Highway in direzione Katherine, dove giungiamo attorno all’ora di pranzo, fermandoci a far spesa presso il locale supermercato Woolworths. Numerosi motel australiani consentono ai propri ospiti di usufruire di un’area appositamente attrezzata per il barbecue, così ne approfittiamo, e sotto un caldo sole, mi ritrovo poco dopo a cuocere bistecche in un verde praticello d’Australia, dove ogni tanto, al di fuori della staccionata fa capolino un wallaby, che incuriosisce particolarmente Valentina. Insalatona gigante, megabistecca, qualche bella QVB ghiacciata, quiete allo stato puro e piccoli parenti dei canguri che saltellano intorno. Sì, direi che il quadro è decisamente perfetto e può tranquillamente rappresentare uno scorcio d’Australia a lungo rincorso nei sogni.

Siamo ancora sulla Stuart Highway, che percorriamo questa volta per circa quaranta chilometri in direzione nord, fino ad imboccare sulla destra la strada che, in venti chilometri, ci conduce alle Edith Falls, nel Nitmiluk National Park. Le cascate sono parzialmente asciutte, ma il bel laghetto sottostante, circondato da pandani ed eucalipti invita a bagnarsi, malgrado l’acqua sia sensibilmente gelida. Anche qui ci sono numerosi sentieri più o meno lunghi, oltre all’immancabile area dove accendere il barbecue, questo pomeriggio occupata da un numeroso gruppo di aborigeni. 

Il giorno successivo, al mattino presto lasciamo definitivamente Katherine, i cui spettacolari dintorni meritano un posto d’onore tra le più belle località ammirate durante questo viaggio. Sostiamo all’Hayes Creek Roadhouse, dove consumiamo uova fritte e bacon in compagnia di alcuni pittoreschi e barbuti conducenti di road trains. Proseguendo la nostra marcia lungo la Stuart Highway, ventisette chilometri dopo aver superato la località di Adelaide River voltiamo a sinistra in direzione di Batchelor, porta d’ingresso al Litchfield National Park, che raggiungiamo dopo una mezz’ora. Va detto, questo parco è a mio parere uno dei più spettacolari dell’intera zona. Effettuiamo la nostra prima tappa al Magnetic Termite Mounds, magnifici nidi dall’aspetto di enormi lastre paragonabili a delle grosse pietre tombali disseminate lungo il terreno, che le termiti bussola erigono sapientemente orientandoli da nord a sud, ottenendo in questo modo un costante controllo della temperatura, a seguito dell’esposizione della superficie minore al sole. La nostra successiva sosta avviene in prossimità delle Florence Falls, che ammiriamo dall’alto, prima di scendere nel sottostante laghetto, dove ci concediamo un rigenerante bagno nelle sue fresche acque circondate da lussureggiante vegetazione, in compagnia di una scolaresca costituita da ragazzi aborigeni. Ci spostiamo in seguito ai Buley Rockhole, dove un torrente ha scavato nei secoli diverse grosse piscine naturali, separate tra loro da rocce e piccole cascate. Il posto è straordinario e vi trascorriamo diverso tempo, rilassandoci in queste acque smeraldine, nonché godendo di naturali idromassaggi aggrappati alle rossastre rocce che frenano l’impetuoso corso del piccolo fiume. All’ingresso delle Wangi Falls troviamo il solito cartello che avverte i visitatori circa la possibile presenza dei freshwater crocodiles, e malgrado le cascate abbiano in questa stagione una portata limitata, il bacino d’acqua che le stesse creano è altamente spettacolare, essendo interamente circondato da vegetazione, che si riflette conferendogli un caratteristico color verdognolo. Stranamente Valentina non si allontana di molto dalle scalette in pietra che scendono in acqua e questo ci sembra alquanto strano, considerato che finora difficilmente si riusciva a contenerla nei numerosi bagni effettuati nei parchi del Northern Territory. Quando Patrizia la invita a raggiungerla pochi metri oltre, la sua risposta ci fa scoppiare in una grande risata: “non ci penso nemmeno mamma, io sto bene qui, ho sentito che ci sono i coccodrilli, quelli che ieri volevano mangiare papà”. Le Tolmer Falls, poco più di un rigagnolo d’acqua, costituiscono la nostra ultima tappa nel Litchfield National Park, ed attraverso strade costellate di fitti boschi di eucalipti, prendiamo la direzione della Stuart Highway e di Darwin, che raggiungiamo circa 130 chilometri dopo.

La sera ci rechiamo presso il Wharf Precinct, dove le vecchie banchine sono state ristrutturate, creando un centro di ritrovo costituito da numerosi stand gastronomici, specializzati per lo più in frutti di mare e crostacei, ma dove trova posto anche l’onnipresente cucina asiatica. Tra i numerosi abitanti di Darwin, qualche turista, un piatto di ostriche e frutti di mare, un kao pad thailandese, ed un paio di bottiglie di vino, la nostra serata, l’ultima per quest’anno in terra australiana, scivola malinconicamente sotto un cielo che sembra più stellato del solito. Il giorno seguente un aereo ci condurrà a Singapore, dove sosteremo per l’ennesima volta prima di tornare in Italia, ma il viaggio inizia ora, ed il perché ve l’ho scritto all’inizio del racconto: l’Australia è sempre lì, dall’altra parte del mondo, sottosopra nel planisfero, fissa nei miei pensieri, e semichiusa a mò di puzzle nel nostro personale cassetto dei viaggi. Puzzle a cui ogni tanto aggiungiamo un tassello, ammirandone compiaciuti la progressiva realizzazione, fino al fatidico giorno del suo futuro completamento. Perché l’Australia lo sa, conosce la nostalgia che sta attanagliandoci e ci aspetta, consapevole come noi che prima o poi torneremo a percorrere i suoi spazi infiniti, ad ammirare i suoi infuocati tramonti, a respirare i suoi grandi silenzi, ad immergerci nella sua incredibile natura.

Sa che ancora una volta, prima o poi, torneremo a viaggiare… Down Under.

 

 

 

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