Angkor e dintorni, il mondo Khmer

Angkor è una parola magica, più che un posto in cui desideravo viaggiare sin da bambino.

Angkor evoca misteri e fasti di una civiltà grandiosa e sorprendente, di cui forse si parla troppo poco in rapporto alla magnificenza delle sue vestigia, imperscrutabili testimoni di un glorioso passato. Angkor dovrebbe figurare di diritto tra le prime meraviglie del mondo intero, a dispetto magari di altri luoghi più blasonati e pubblicizzati, benché parzialmente privi del suo immane splendore, o delle sue mastodontiche dimensioni.

In questi scritti non intendo descrivere i vari monumenti di Angkor nella loro surreale sontuosità, né tantomeno soffermarmi sulle gesta della civiltà Khmer, entrando in merito all’ascesa del sovrano universale Jayavarman II, capostipite di una dinastia reale, che diede vita al più grande impero mai esistito nel sudest asiatico continentale, poiché queste notizie sono sapientemente esaminate in diversi buoni testi, ed illustrate in altrettanti interessanti volumi fotografici.

Mi limiterò, pertanto, a descrivere le mere personali impressioni ricavate durante i giorni trascorsi nella suddetta località cambogiana e nei suoi dintorni.

Disquisendo di una visita ad Angkor dal punto di vista prettamente turistico, ritengo che una doverosa premessa sia quantomeno d’obbligo. Il modo più semplice ed economico per visitare le rovine, è quello di accordarsi con un conducente di tuk tuk, il quale, previo compenso di dieci-quindici dollari giornalieri, sarà ben lieto di condurre il turista ovunque negli immediati dintorni, mentre probabilmente richiederà un piccolo supplemento per visitare i siti più distanti.

Scritto questo, per quanto mi riguarda, tempo addietro lessi un articolo inerente About Asia Travel http://www.aboutasiatravel.com/, tour operator locale, e decisi quasi subito che se un giorno avessi visitato Angkor, li avrei contattati per pianificare un itinerario su base privata. Il perché è strettamente personale, e riconducibile per lo più al fatto che il suddetto operatore devolve parte dei propri guadagni a supporto dell’educazione sostenibile dei bambini nella aree rurali della Cambogia. La loro storia in tal senso, iniziò infatti con la costruzione di una scuola secondaria a Prey Chrouk, e continua mediante mirate attività di sostegno in diverse scuole ubicate nei dintorni di Siem Reap, cittadina alle porte di Angkor. Navigando sul loro sito, rimasi tra l’altro impressionato dalle seguenti righe, relative alle divise scolastiche, sul quale ritengo doveroso soffermarmi:

“Secondo la legge cambogiana tutti i bambini devono indossare una divisa per frequentare la scuola. La divisa nuova costa US$ 5 e può essere una somma impossibile per un gran numero di famiglie povere. Ora stiamo sostenendo alcune scuole nelle zone più povere fornendo uniformi scolastiche per i loro figli”.

D’altra parte, visitando i vari siti di Angkor, oltre che dallo sfarzo dei fantastici monumenti, si resta inevitabilmente colpiti dai numerosi bambini che, sin dal primo mattino, si aggirano tra le rovine, provando a vendere paccottiglia turistica. Piccoli bambini che non frequentano la scuola, e che resteranno forse per sempre analfabeti in un paese poverissimo e segnato oltremodo da un recente passato travagliato da tragiche vicissitudini.

La nostra guida si chiama Kem, ha lo sguardo vispo e ride spesso con fragore, il che ovviamente non guasta. “Proviamo a mettere un po’ d’ordine a questo tour”, queste sono le sue prime parole in merito all’itinerario da me personalmente stilato e concordato via internet con l’agenzia, poiché sulla carta tutto appare fin troppo semplice, ma talvolta le distanze, l’esperienza di chi ben conosce i posti, e la logica, confluiscono in tutt’altra direzione.

Spossati da circa quattordici ore di volo e sei di fuso orario, senza ulteriori perdite di tempo eccoci dunque attoniti al cospetto del Preah Khan, vasto complesso architettonico nel quale coesistono elementi del buddismo Mahayana ed induisti. Ci bastano pochi attimi per trovarci immediatamente catapultati nella realtà di Angkor, caratterizzata da fitte foreste in cui spuntano come d’incanto suggestive rovine parzialmente ricoperte da licheni, incantevoli bassorilievi, immensi alberi le cui gigantesche radici si snodano lungo pareti in pietra finemente scolpite, misteriosi corridoi a volta, spaziosi cortili, pregevoli statue intarsiate nella roccia e molto altro ancora, formando nell’insieme un’espressione contestuale di pura magia. E’ quasi ora di pranzo, e constatiamo con soddisfazione una scarsa affluenza turistica, al punto tale che ci aggiriamo sovente soli tra le rovine, godendo indisturbati della surreale atmosfera del posto.

Un’orchestrina di mutilati di fronte al Banteay Kdey, grandioso monastero buddista del dodicesimo secolo, ci rammenta il recente tragico passato cambogiano, la follia politico-criminale di Pol Pot, la guerra civile, le numerose mine antiuomo disseminate in numerose aree del paese, molte delle quali ancora da disinnescare, in stridente contrasto con le magnificenze dell’antichità, che si stagliano maestose di fronte ai nostri occhi. All’interno, un’anziana monaca offre bastoncini d’incenso da bruciare in cambio di una benedizione, mentre numerosi bimbi continuano a prospettare improponibile mercanzia, non lesinando talvolta un sorriso che ti apre il cuore lasciandoti contestualmente l’amaro in bocca, proprio mentre stavi magari ammirando estasiato la raffinata bellezza del posto. 

Ci aggiriamo tra statue d’elefanti in pietra del Mebon Orientale, concludendo successivamente ormai stanchi la giornata sulla sommità del tempio-montagna del Pre Rup, il quale si snoda su tre livelli, ed offre una buona visione d’insieme sulle sottostanti secche risaie.

 

Il Ta Prhom, che attraversiamo il mattino successivo accedendovi dalla porta orientale, ci appare come inghiottito dalla giungla, essendo sovrastato da alberi secolari, che filtrano la luce a proprio piacimento, creando suggestivi giochi d’ombra tra le fantasmagoriche rovine, spesso avvolte da imponenti radici. Il tempio, costituito da diversi cortili, svariate gallerie e numerose torri, gode di una meritata fama grazie ad un incomparabile fascino decadente, e la sua notorietà fu tra l’altro accentuata per aver anche prestato il proprio set ad alcune riprese del film Tomb Raider. Nonostante la nutrita affluenza turistica, si resta letteralmente estasiati da queste rovine, che sembrano formare un tutt’uno con l’ambiente circostante, quasi fossero originariamente edificate di proposito come oggi le vediamo.

 Sostiamo indisturbati per un po’ di tempo, sorseggiando con calma un caffè gentilmente offertoci da Kem, e rimanendo quasi in mistica contemplazione di fronte alla sagoma del Ta Keo, dopodiché raggiungiamo a piedi il Ta Nei, che troviamo completamente deserto e totalmente in balia della giungla, mentre dedicheremo l’intero pomeriggio alla scoperta della città fortificata di Angkor Thom, la quale si sviluppa su una superficie complessiva di circa dieci chilometri quadrati. Ovunque, nel Bayon, abbiamo la sensazione di essere osservati da qualcuno dei duecentosedici faccioni in pietra, al cui impenetrabile sguardo sembra non sfuggire nulla,

 

mentre si potrebbero trascorrere ore ed ore osservando gli spettacolari bassorilievi che si snodano lungo il muro esterno del primo livello, ed il Phimeanakas ci catapulta in qualche modo indietro nel tempo, oltre che in un altro continente, riscontrando nella sua struttura delle vaghe analogie architettoniche con alcune piramidi Maya. L’aperitivo serale nella più assoluta solitudine della porta orientale dell’Angkor Thom, sorseggiato mentre la foresta circostante si popola di mille suoni e la luce sta progressivamente scemando, vale da solo un viaggio a queste latitudini.

 

Siem Reap si popola gradualmente di visitatori al sorgere del sole, quando The Alley, ma soprattutto la parallela Pub Street, diventano i luoghi d’aggregazione turistica per antonomasia. Qui pullulano i locali in stile occidentale, dove il costo di un’Angkor alla spina, discreta birra locale, ammonta appena a mezzo dollaro statunitense, valuta impiegata correntemente a livello turistico, considerato che di rado i visitatori pagano in Real, l’ufficiale moneta cambogiana, della quale si viene generalmente in possesso quasi esclusivamente quando si riceve un resto di lieve entità. Nelle immediate vicinanze di Pub Street, il Mercato Serale di Angkor trabocca di bancarelle che offrono souvenir ed oggetti di pseudo artigianato “made in China”, mentre negli immediati dintorni ci sono diversi banchetti gastronomici, che offrono buon cibo a prezzi irrisori. Una pietanza meritevole d’esser provata è senza dubbio l’Amok, considerato il piatto nazionale e consistente in dei filetti di pesce cucinati in latte di cocco e spezie, servito generalmente in foglie di banano assieme a del riso bianco, sebbene, relativamente ad altri piatti provati durante i giorni della mia permanenza a Siem Reap, non posso affermare che la cucina cambogiana in genere mi abbia particolarmente entusiasmato.

L’alba ad Angkor Wat ci comporta una levataccia senza precedenti. Lo spettacolo è discreto, benché non trascendentale, e ci troviamo inoltre intruppati in mezzo a decine d’altri turisti, cinesi compresi, che non tardano a farsi sentire. Il lato positivo, è dato senza dubbio dal fatto che, una volta sorto il sole, se ne tornano quasi tutti incredibilmente a Siem Reap, pertanto possiamo visitare l’Angkor Wat in tutta tranquillità, perdendoci immediatamente con lo sguardo tra gli ottocento metri d’incredibili bassorilievi incisi lungo la parete esterna, ma posso tranquillamente affermare che tutto l’enorme complesso, praticamente una sorta di cittadina, merita ampliamente la fama che l’accompagna. 

Il Bantey Srei, tempio dedicato a Shiva, è forse il sito che più mi è piaciuto, perché alle sue dimensioni contenute, contrappone una raffinatezza pressoché unica, grazie agli eccelsi rilievi incisi su pietre dalle tonalità rosate, così ben realizzati da interrogarsi se siano effettivamente veri, ed è uno spettacolo assoluto girovagare tra i suoi gopura finemente decorati, passeggiare tra le sue biblioteche ornate da spettacolari raffigurazioni del Ramayana, entusiasmarsi dinnanzi ad alcuni dei suoi frontoni finemente intarsiati.  

 

Sulla via del ritorno, sono incuriosito da un minuscolo villaggio lungo la cui strada è allineata una prolungata schiera di pentoloni, così chiedo all’autista di fermarsi. Qui vengono venduti dolciumi prodotti con lo zucchero di palma, il quale viene scaldato in delle grandi pentole al fine di formare una sorta di melassa che, una volta cristallizzata, viene versata dentro alcune formine di bambù. In pratica delle caramelle, prodotte per lo più da bambini, che faticano non poco a girare quel mestolo più grande di loro.

Il problema dei bambini, a cui ho accennato all’inizio di questo racconto, si ripresenta di continuo in questi luoghi. Bambini che non frequentano la scuola, bambini spesso scalzi e cenciosi, i quali, in diversi casi, vengono anche scippati della propria infanzia, poiché vale la pena rammentare come la Cambogia venga spesso annoverata tra quei paesi dove il problema della prostituzione minorile è maggiormente riscontrato. Problematica di difficile risoluzione in un paese in cui gran parte della popolazione vive ben al di sotto della fatidica soglia di povertà, e nel quale troppo spesso, come accennavo precedentemente, anche frequentare la scuola rappresenta un lusso. Uno dei nostri bagagli è stato parzialmente riempito di penne, matite e colori, che in questi giorni abbiamo distribuito tra quei bambini che tornavano dalle scuole, i quali ci hanno riempiti di ringraziamenti e cosparso contestualmente il cuore di gioia. Si è trattato di una minuscola goccia nel mezzo di un oceano intriso di problemi, ma l’aver potuto regalare qualche sorriso con un piccolo gesto, ci ha resi estremamente felici.

Dedichiamo il pomeriggio ai templi di Roluos, che diedero il via all’inizio dell’arte classica cambogiana. Arriviamo al Lolei verso l’ora di pranzo, trovandolo deserto, e le sue fatiscenti torri  conferiscono al luogo un aspetto vagamente desolato, non rendendogli probabilmente giustizia, malgrado alcuni bei elementi decorativi raffinatamente incisi, mentre il Preah Ko, con i suoi pregevoli stucchi, ma soprattutto il Bakong, rappresentazione del Monte Meru, la montagna sacra della mitologia induista e buddista, risultano interessantissimi. Con le dovute proporzioni, il Bakong ci ricorda in qualche modo il Borobodur di Java, che visitammo poco più di due anni or sono.

 

L’indomani partiamo di buon mattino alla volta del Phnom Kulen, considerato il monte più sacro della Cambogia, dove, a quanto si narra, Jayavarman II, capostipite della dinastia dei cosiddetti sovrani-divinità Khmer, proclamò l’indipendenza da Java. Le piogge monsoniche degli scorsi mesi hanno reso la malridotta strada non asfaltata al limite della praticabilità, e balliamo pertanto parecchio, sprofondando sovente dentro inevitabili buche profonde come crateri, prima di arrivare al Wat Prhea Ang Thom, ubicato sulla cima della montagna, che raggiungiamo tramite una scalinata brulicante di mendicanti seduti ai piedi di un lungo Naga. Il tempio è stato costruito sulla sommità di un grosso blocco di arenaria, e l’enorme Buddha sdraiato presente al suo interno, è stato scolpito direttamente nella medesima roccia.

Successivamente osserviamo alcuni bassorilievi incisi nel letto di un vicino fiume e facciamo tappa presso una locale cascata, celebre luogo di ritrovo delle famigliole cambogiane che vengono sul monte in pellegrinaggio, dopodiché ci dirigiamo alla volta di Beng Mealea. Qui la natura ha completamente preso il sopravvento sul tempio, che ci appare come perso nella fitta giungla, con numerose costruzioni purtroppo crollate e grandi radici che avvolgono le antiche mura su cui furono intarsiate eleganti colonne. Numerosi, nemmeno a dirlo i bambini, che s’improvvisano in questo caso guide, entrando a piedi nudi in oscuri corridoi a prima vista senza fine, salvo poi sbucare nuovamente all’improvviso da qualche ingresso apparentemente inaccessibile, a distanza di pochi minuti.

Con l’aspetto da tipica città perduta nella giungla, pericolante, e circondata da un surreale silenzio, Beng Mealea ci permette di vivere in solitudine intensi attimi alla Indiana Jones, almeno fino a quando un torpedone non scarica una nutrita comitiva di turisti cinesi che, in breve, mutano completamente l’atmosfera del luogo. Il sito si anima all’improvviso di voci, risate, addirittura suoni simili a sirene, provocati da strani fischietti. Sì, direi che ora di andarsene, muovendo alla volta di Kompong Khleang, enorme villaggio galleggiante ubicato sul Tonlè Sap, il più grande lago d’acqua dolce del sudest asiatico, che iniziamo a navigare a bordo di una barca locale. Scene di vita quotidiana si succedono ai nostri occhi, in un contesto caratterizzato dall’andirivieni d’imbarcazioni che sfilano dinnanzi a file interminabili di costruzioni su palafitte, poi, una volta usciti dal villaggio, dove il lago assume dimensioni più ampie e le sponde si perdono all’orizzonte, incontriamo molte case galleggianti contraddistinte da un unico ambiente dove i pescatori locali vivono con le proprie famiglie. Si susseguono come in un film, immagini di donne intente a pulire il pesce, anziani che riposano su stuoie, bambini che si tuffano nelle sottostanti marroni acque, ma nonostante la visita si rivela ovviamente interessante, ci sentiamo come degli intrusi che violano la quotidianità di questa gente, che nella sua estrema genuinità e modestia, mostra grande orgoglio e dignità.

Il nostro viaggio è giunto al termine, ripartiremo da Siem Reap con la curiosità d’approfondire meglio in futuro la Cambogia, viaggiando ancora tra la sua gente, che durante questi giorni ha saputo conquistarci con la propria semplice spontaneità.

La nostra meta ha pienamente superato le aspettative e, come immaginavamo, valeva da sola un viaggio, perché Angkor va assolutamente visitata.

Almeno una volta nella vita.

Benedetto Antonucci